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Un piano industriale per la cultura?
Con l’insediamento del nuovo governo Draghi, l’attenzione torna al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)[1], il documento che orienterà l’allocazione delle risorse pubbliche per i prossimi anni e che – per quantità di risorse e velocità di impegno – è destinato ad aver un impatto molto significativo sul modello di crescita perseguito dal nostro Paese.
Il riferimento del Primo ministro all’Italia come «grande potenza culturale», e al ruolo della cultura non nei termini di semplice attrazione turistica ma «patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale», fanno intravedere una possibile strada per la realizzazione di un nuovo modello di sviluppo.
Il PNRR tratta i compositi ambiti della cultura in due modi:
- in modo diretto, prevedendo esplicitamente che la componente 3 (turismo e cultura 4.0) della missione 1 (digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura) riguardi le istituzioni culturali e gli operatori turistici e riceva una dotazione di 8 miliardi di euro;
- in modo indiretto, con riferimento particolare a interventi di inclusione e coesione (missione 5, componenti 2 e 3); iniziative di rafforzamento delle competenze (missione 4 componente 1).
Sulla carta c’è la possibilità di fare molto, soprattutto se a livello locale si vorrà utilizzare la cultura per sviluppare una strategia integrata, per esempio facendo sponda con le risorse per il rafforzamento delle competenze digitali nella PA o l’efficientamento energetico degli edifici pubblici.
Certo è che se davvero vogliamo pensare all’Italia come a una grande potenza culturale, è molto importante sviluppare un piano industriale per la cultura che dia nuovo significato ad alcune delle parole usate (e spesso abusate) in ambito culturale.
Innanzitutto, non possiamo pensare a un piano industriale se non partiamo dalla ricerca, e non riconosciamo che le organizzazioni culturali sono anche produttrici di conoscenza. Il Museo Egizio di Torino, per esempio, ma non è certo il solo, sta dimostrando che la conservazione di reperti non è fine a se stessa, né un’attività esclusivamente finalizzata a esporre come in una Wunderkammer oggetti del passato. E, d’altra parte, la relazione fra nuove tecnologie (dalla robotica al machine learning, fino alla realtà virtuale) e relazioni umane è un ambito di ricerca molto promettente e necessario in molti settori: il patrimonio culturale potrebbe essere una straordinaria palestra su cui creare nuova conoscenza da applicare anche in ambiti produttivi diversi.
L’esperienza di visita in presenza ai nostri straordinari monumenti può essere arricchita e articolata diversamente, ma è necessario guardare al patrimonio in modo meno ottocentesco; e quindi ben vengano risorse per la digitalizzazione del patrimonio, come previsto dal PNRR. E che dire della relazione fra le molte imprese hi-tech e la valorizzazione di alcune property intellettuali su mercati internazionali? Walt Disney e Assassin Creed non ci hanno insegnato nulla? E il fatto che Brexit abbia aperto una finestra nel mercato europeo per contenuti audiovisivi non rappresenta forse un’opportunità importante?
E questo porta al passo successivo: un piano industriale richiede inevitabilmente di immaginare le ricadute produttive degli investimenti. Il dibattito sulla possibilità per i mondi della cultura di creare ricchezza economica in passato si è focalizzato sulla relazione cultura-turismo; forse è giunto il momento di esplorare altre forme di relazione, riconoscendo per esempio che la ricchezza e la diffusione del nostro patrimonio culturale, unita a una forte attenzione alla sua conservazione, hanno determinato la crescita di una serie di operatori altamente specializzati nei settori della ristrutturazione di edifici antichi, nel restauro, nella produzione di materiali da costruzione, nell’utilizzo di tecnologie di scansione e rilevazione di oggetti antichi (dalle mummie agli edifici). La ricostruzione in 3D della cattedrale di Notre Dame ha da pochissimo fatto notizia, ma non è appannaggio solo francese; ironia della sorte, la stampa menziona che il referente del progetto è un italiano che lavora da tanti anni in Francia.
Inevitabilmente, un piano industriale mette al centro della riflessione la possibilità di creare posti di lavoro e l’aggiornamento delle competenze; un anno di pandemia ha portato alla luce le difficoltà, i problemi, le opacità e l’insostenibilità di diverse categorie di lavoratori culturali (a partire dagli artisti) e la necessità per le categorie professionali stabilmente occupate di arricchire e contaminare il proprio bagaglio di competenze. Non si tratta solo di un problema di equità e di sostenibilità, ma anche della possibilità che i meccanismi distorsivi dei mercati del lavoro portino inevitabilmente ad auto-selezionare solo le persone in grado di assorbire, attraverso il reddito della propria famiglia, i rischi connessi a una non adeguata remunerazione. Una conseguenza di questo è l’inevitabile rappresentazione parziale della società offerta dai mondi della cultura e un conseguente disinteresse da parte di chi non si sente rappresentato.
E infine, un anno di chiusure dei luoghi di cultura ha un effetto fortemente negativo sui pubblici e sui consumi culturali. Mentre riflettiamo su come riaprire i mercati della cultura e su come attirare i turisti che vengono da lontano e quelli di prossimità, è necessario riflettere su come rivitalizzare l’alleanza storica fra mondi della cultura e mondi dell’educazione, dell’istruzione e della formazione e come contrastare le varie forme di abbandono e di esclusione.
[1] Il testo completo è disponibile sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per le Politiche Europee: http://www.politicheeuropee.gov.it/it/comunicazione/approfondimenti/pnrr-approfondimento/.