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Da Trump a Biden: che cosa cambia per il commercio estero?
Nonostante la transizione rimanga faticosa, il mondo si sta preparando al cambio al vertice degli Stati Uniti, dalla presidenza repubblicana di Donald Trump a quella democratica di Joe Biden. Che cosa ci possiamo aspettare una volta terminata la transizione sul fronte delle relazioni economiche internazionali? La domanda è stata posta qualche giorno fa a Hillary Clinton, segretario di stato con Barack Obama e poi candidata democratica alle elezioni presidenziali del 2016, in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’Istituto universitario europeo di Firenze.
La premessa è che, prima di Trump, per il resto del mondo era più facile capire l’atteggiamento americano in materia di politica estera. C’era una linea repubblicana e c’era una linea democratica, ma la volontà degli Stati Uniti di compattare gli alleati intorno a interessi comuni era chiara. Come chiara era la leadership statunitense sulle relative azioni comuni. Questa chiarezza si è offuscata durante la presidenza Trump, il cui slogan elettorale «Make America great again» (rifare grande l’America) è stato subito declinato come «America first» (prima l’America), riprendendo il motto delle amministrazioni americane, sia democratiche sia repubblicane, che tra le due guerre mondiali avevano perseguito un atteggiamento di neutralità rispetto alle vicende europee.
Nel tempo «America first» è diventata l’etichetta di una posizione di politica estera isolazionistica, che l’amministrazione Trump ha tradotto nel sistematico ritiro degli Stati Uniti dai trattati internazionali (tra gli altri, l’accordo di Parigi sul clima o quello nucleare con l’Iran) e dalle organizzazioni internazionali (tra le altre l’UNESCO o l’Organizzazione mondiale della sanità). Trump ha anche attaccato la NATO e ostacolato il funzionamento dell’Organizzazione mondiale del commercio, indebolendo l’approccio multilaterale al commercio internazionale e lanciando la sua guerra commerciale unilaterale contro la Cina. Una guerra i cui effetti collaterali non hanno risparmiato alleati di lunga data sia europei sia nordamericani. In breve, con Trump gli Stati Uniti hanno paradossalmente rinunciato al loro ruolo di garante di un ordine mondiale disegnato in larga parte a loro immagine e somiglianza e, secondo i più critici, anche a loro uso e consumo dopo la Seconda guerra mondiale. Da «America first» ad «America first» (l’America da sola) il passo è stato breve.
Ci sarà un’inversione di tendenza con la presidenza di Joe Biden? Hillary Clinton non ha dubbi. Il paradosso trumpiano sarà risolto, grazie a un ritorno alla coerenza e a chiari obiettivi di politica estera. Biden vuole rientrare nell’accordo sul clima di Parigi e persino in una qualche versione modificata dell’accordo nucleare con l’Iran. Rassicurerà gli alleati che l’America è tornata («America is back»), sottolineando l’importanza della NATO e facendo sentire la propria leadership nella gestione dei problemi globali, dal cambiamento climatico alle emergenze umanitarie. Insomma, con Biden gli Stati Uniti riaffermeranno la loro centralità sul palcoscenico globale, ricompattando i loro alleati intorno a obiettivi comuni.
Chi però si aspetta un’importante discontinuità anche in termini di politica commerciale potrebbe restare deluso. In primo luogo, sebbene con toni meno garbati e interventi meno articolati del suo predecessore, Donald Trump ha proseguito una traiettoria protezionistica già presente durante la presidenza democratica di Barack Obama e rafforzatasi all’indomani della crisi finanziaria del 2008. In secondo luogo, il manifesto programmatico di Joe Biden in tema di politica economica, reso pubblico durante la campagna elettorale, parla chiaro. Fin dal titolo: «Il Piano Biden per garantire che il futuro sia prodotto in tutta l’America da tutti i lavoratori americani». Da «Made in America» a «Made in all of America». A rafforzare il messaggio provvede l’apertura del documento: Biden «non accetta per un secondo che la vitalità industriale degli Stati Uniti sia un ricordo del passato. L’industria statunitense è stata l’arsenale della democrazia durante la seconda guerra mondiale e oggi deve far parte dell’arsenale della prosperità americana».
Il Piano Biden si sviluppa lungo sei linee di azione enfaticamente chiamate «compra americano», «producilo in America», «innova in America», «investi in tutta l’America», «difendi l’America» e «rifornisci l’America». Gli strumenti d’azione includono massicci interventi di politica industriale a sostegno delle imprese americane e restrizioni al commercio internazionale. Sul fronte della politica industriale spiccano un ambizioso programma di appalti pubblici a vantaggio delle imprese americane, il progetto di eliminare dal regime di tassazione americano i vantaggi che attualmente le imprese hanno nello spostare le loro attività produttive all’estero e l’introduzione di incentivi opposti volti a rimpatriare tali attività, soprattutto quello ritenute critiche per gli interessi nazionali. Sul fronte delle restrizioni commerciali colpisce l’enfasi posta sulla volontà di fare in modo che tutto il traffico di natura commerciale tra i porti americani avvenga solo su navi americane costruite in America e con equipaggi americani. Colpiscono anche la strategia di decoupling (disaccoppiamento) delle catene del valore americane da quelle cinesi (ma non solo cinesi) e la volontà di inserire negli accordi sugli scambi internazionali clausole di natura sociale contro le importazioni da Paesi con standard di protezione del lavoro meno stringenti di quelli statunitensi a difesa dell’industria americana.
Clausole di natura sociale sono state recentemente inserite nello United States-Mexico-Canada Agreement (USMCA), l’accordo commerciale tra Canada, Messico e Stati Uniti, che a luglio ha sostituito il precedente North American Free Trade Agreement (NAFTA) in vigore dal 1994. Nell’ambito dello USMCA i firmatari si impegnano a vietare le importazioni di merci prodotte con il lavoro forzato, mentre il Messico dovrà attuare una serie di riforme del mercato del lavoro per allinearsi ai più alti standard canadesi e statunitensi. Un nuovo «meccanismo di risposta rapida» consente a esperti indipendenti di valutare le violazioni del diritto dei lavoratori a organizzarsi e, in caso affermativo, di imporre restrizioni commerciali mirate. Resta da vedere se il modello USMCA potrà essere esteso a livello di Organizzazione mondiale del commercio, nella misura in cui i Paesi in via di sviluppo tendono a essere riluttanti a sottoscrivere clausole di natura sociale, considerandole una limitazione della loro sovranità e uno stratagemma per indebolire i loro vantaggi competitivi. Per lo stesso motivo, gli stessi negoziatori americani hanno tradizionalmente guardato con sospetto tali clausole e non è un caso che il meccanismo di risposta rapida dell’USMCA richiede che gli eventuali reclami contro gli Stati Uniti vadano prima presentati alle autorità americane e solo in un momento successivo agli esperti indipendenti.
Il tutto viene perseguito dagli Stati Uniti in nome della sicurezza nazionale, intesa come libertà di decidere per il bene nazionale senza interferenze o imposizioni dall’estero. In quest’ottica, la capacità del Paese di mantenere e sviluppare l’economia nazionale è considerata essenziale nella convinzione che, senza sicurezza economica, non ci può essere sicurezza nazionale, dal momento che l’indipendenza economica determina in larga parte l’autonomia della nazione.
Una chiara manifestazione delle interconnesioni tra sicurezza economica e sicurezza nazionale è l’attenzione constante con cui i presidenti americani, conservatori e democratici, hanno continuato a seguire le vicende del petrolio mediorientale. In passato, il coinvolgimento statunitense aveva prevalentemente lo scopo di mantenere un flusso stabile di oro nero, da cui l’economia americana dipendeva per il suo funzionamento. Oggi l’approvvigionamento è meno importante a seguito della strategia di «energy dominance» (dominio energetico) perseguita dagli Stati Uniti, volta ad aumentare la capacità di produzione ed esportazione americana sia nel mercato petrolifero sia in quello del gas naturale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: nel 2017 gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di gas naturale per la prima volta dal 1957; nel 2019 sono diventati anche esportatori netti di petrolio greggio e raffinato per la prima volta dal 1949. Non cambia però la volontà degli Stati Uniti di restare protagonista in Medio Oriente. Solo il motivo del loro coinvolgimento è cambiato: non più quello di assicurare uno stabile flusso di prodotti petroliferi, ma quello di controllare l’andamento dei prezzi, ovviamente dal punto di vista di un Paese che non è più compratore ma piuttosto venditore netto.
In tema di sicurezza nazionale, il Piano Biden è chiaro: l’America non vuole più dipendere da fornitori esteri per tutto ciò che potrebbe rivelarsi d’importanza strategica in una situazione di crisi. Il rischio è però che anche per la presidenza Biden la sicurezza nazionale possa diventare un pretesto da utilizzare al bisogno anche in ambito economico per discriminare le imprese estere. È infatti un’eccezione che può essere invocata dai Paesi per derogare legalmente agli accordi multilaterali sanciti dall’Organizzazione mondiale del commercio. Per esempio, la Russia l’ha usata per danneggiare il commercio estero ucraino. Poco importa in prospettiva che ragioni di sicurezza nazionale siano proprio quelle invocate a suo tempo da Donald Trump per imporre i suoi dazi unilaterali sull’acciaio importato. Quei dazi hanno colpito non solo la Cina, ma anche altri Paesi tradizionalmente amici quali Unione Europea, Turchia, Svizzera, Norvegia, Messico, Canada e India. Paesi che farebbero bene a guardare con attenzione alcuni aspetti del Piano Biden, a partire dal fatto che, nonostante le pesanti critiche fatte in campagna elettorale dal presidente eletto ai dazi del presidente in carica, in quel documento non si fa alcun cenno alla loro rimozione. A buon intenditor poche parole?