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Ci sarà l’euro digitale? Sì, e sarà doppio
A partire da metà ottobre i media hanno dato ampio risalto al primo rapporto che la Banca Centrale Europea (BCE) ha dedicato all’ipotesi di emettere un euro digitale, firmato da Christine Lagarde e Fabio Panetta, rispettivamente presidentessa della BCE e membro del Comitato esecutivo della stessa. Il rapporto mette in fila le diverse problematiche che devono essere affrontate per definire e implementare quella che sarebbe una radicale evoluzione della moneta. L’approccio utilizzato dalla BCE è quello di innovare minimizzando i rischi, un approccio consueto dei banchieri centrali. Detto in altri termini, l’euro digitale dovrà risolvere problemi, non crearli. L’avversione al rischio è particolarmente condivisibile su questo argomento: prima di creare una nuova moneta occorre interrogarsi sulle sue proprietà economiche e sulle caratteristiche tecniche e legali per realizzarle. Altrimenti diventa molto alto il rischio di aprire un sorta di vaso di Pandora. Vediamo più nel dettaglio queste caratteristiche.
Partiamo da una premessa generale: le proprietà di una moneta sono almeno tre, e ciascuna di esse risponde all’esigenza di dotare gli individui di uno strumento per affrontare al meglio forme diverse di rischio.
Il primo rischio è quello di rimanere illiquidi. Spieghiamoci meglio: ciascuno di noi desidera fare acquisti di beni e servizi nel momento in cui lo decide; ma per realizzare i propri desideri occorre avere in quel momento qualcosa che chiunque accetti in cambio di ciò che vogliamo acquistare, altrimenti si è illiquidi. Questo qualcosa si chiama moneta. Quindi una moneta è efficace quando è uno strumento per affrontare il rischio di illiquidità. Evidentemente tale efficacia sarà tanto più alta quando più la moneta sarà accettata negli scambi. Nella quotidianetà diamo l’accettabilità di una moneta come una proprietà scontata. Ci basta però pensare a cosa ci accade quando siamo all’estero, dobbiamo effettuare un pagamento, e ci troviamo in una situazione in cui siamo privi dell’unica valuta accettata, magari quella locale, per di più in contanti; l’illiquidità è davvero una situazione sgradevole. Alcune proprietà della moneta rendono l’accettabilità più alta. Per esempio, l’accettabilità di un moneta è tanto più alta quanto più essa è unità di conto per calcolare i prezzi, ed è definita dalla legge come strumento di pagamento. Un potenziale euro digitale avrebbe entrambe le caratteristiche.
Contemporamente, però, una moneta è tanto più accettata quanto più il suo valore è garantito; una moneta svolge con maggiore efficacia il suo compito quanto minore è il rischio che il suo valore si riduca. Il secondo rischio è dunque quello di svalutazione. La moneta è una riserva di valore. Quanto più una moneta nel tempo mantiene il suo valore, tanto meglio svolgerà la sua funzione di mezzo di pagamento. Il rischio svalutazione a sua volta dipende da due fattori: la stabilità del valore della moneta, rispetto a quello degli altri beni e servizi, la presenza o meno di un rendimento. L’euro digitale godrebbe dello stesso valore dell’euro cartaceo che oggi conosciamo, e che è tutelato dal fatto che la BCE ha come suo obiettivo prioritario la stabilità monetaria. Un obiettivo – è bene non dimenticarlo – che finora la nostra moneta ha assolto egregiamente. Riguardo all’eventuale rendimento di un euro digitale, si aprirebbe invece uno dei nodi più delicati da sciogliere per le sue implicazione sia per l’efficacia della politica monetaria, sia per la stabilità del sistema bancario.
A tal riguardo un premessa è indispensabile: ipotizzare un rendimento per una moneta emessa dallo Stato non è di per sè una politica originale. Già oggi, infatti, le passività delle banche centrali che fungono da moneta possono dare una remunerazione se detenute dalle banche come riserve presso le stesse banche centrali. È un privilegio di cui invece non godono le banconote detenute dai cittadini. La giustificazione è che l’esistenza di una remunerazione per le riserve bancarie può aumentare l’efficacia della politica monetaria nell’influenzare la congiuntura macroeconomica. Inoltre, va ricordato per completezza, tale caratteristica negli ultimi anni da privilegio si è trasformata in una tassa. Infatti diverse banche centrali – tra cui la nostra BCE – oggi definiscono rendimenti negativi sulle riserve bancarie per ridurre il rischio che le banche – in una fase congiunturale caratterizzata da alta e perdurante incertezza – preferiscano «parcheggiare» la liquidità presso di loro, invece di erogare credito a imprese e famiglie.
Ma come dovrebbe essere concepita la remunerazione su un ipotetico euro digitale? Su questo tema lo scorso ottobre un articolo di Bindsell e Panetta su Voxeu.org ha prospettato una soluzione originale[1]. In sintesi, la proposta si poggia su due pilastri. Primo: occorre consentire al numero maggiore possibile di utenti di poter utilizzare l’euro digitale per i loro scambi: più sono gli utenti, più il rischio illiquidità si riduce, più l’efficacia dell’euro digitale aumenta, con vantaggi per tutti. Secondo: occorre però evitare che un utilizzo indiscriminato dell’euro digitale come riserva di valore possa creare contraccolpi macroeconomici indesiderati. Allora occorrerebbe segmentare gli utenti, creando due diversi euro digitali: un «euro al dettaglio» e un «euro all’ingrosso». L’euro digitale al dettaglio dovrebbe essere fruibile sono dai residenti dell’area euro, con un massimale sull’ammontare detenuto, e un rendimento comunque non negativo. L’euro digitale all’ingrosso sarebbe invece caratterizzato da una relazione inversa tra ammontare detenuto e rendimento erogato; quest’ultimo potrebbe andare in territorio negativo. Inoltre i rendimenti dei due euro digitali dovrebbero essere definiti simultaneamente e coerentemente con la struttura complessiva dei tassi di mercato, proprio per evitare effetti indesiderati rispetto agli obiettivi di stabilità monetaria e finanziaria. Bindsell e Panetta offrono anche un esempio concreto, con semplici calcoli, proprio per dare una esemplificazione: oggi il massimale pro capite per l’euro al dettaglio potrebbe essere pari a 3000 euro, con un rendimento pari a zero, mentre il rendimento dell’euro all’ingrosso dovrebbe essere negativo e pari a 100 punti base.
Infine, il disegno dell’euro digitale dovrà tener conto che esiste una terza proprietà della moneta, che è insieme antica e moderna: l’essere una riserva di informazioni. Spieghiamo meglio: quando spendiamo una moneta, diamo informazioni su di noi. La disseminazione di informazioni private dipenderà dal tipo di moneta che utilizziamo. Quindi il terzo rischio che caratterizza una moneta è il cosiddetto rischio di privacy. Evidentemente questo può andare teoricamente da zero – se utilizziamo banconote, purchè non siano in qualche modo riconoscibili – e salire a seconda dei sistemi di pagamenti utilizzati.
A ben vedere, la proprietà della moneta come riserva di informazioni è una proprietà antica, perché da sempre l’anonimato è una caratteristica apprezzata da alcuni operatori. Ma da chi? Possiamo definire due diverse preferenze per la privacy, che possiamo definire fisiologica e patologica. La privacy può essere gradita per ragioni fisiologiche, in quanto ciascun individuo può legittimamente tenerci al fatto che informazioni che lo riguardano non vengano disseminate. Ma la privacy può essere apprezzata per ragioni patologiche; sono quelle che caratterizzano chi ha commesso un reato economico – dall’evasione fiscale in su – e non vuol essere scoperto. In altri termini, la massima privacy – cioè l’anonimato – è una caratteristica che può rendere la moneta uno strumento efficace per riciclare i ricavi di comportamenti illeciti, cioè per poterli utilizzare per scelte economiche – di consumo o di investimento – senza che tale utilizzo aumenti la probabilità che il reato a monte venga scoperto.
Allo stesso tempo, la moneta come riserva di informazioni è una proprietà molto moderna perché la diffusione degli strumenti di pagamenti elettronici, e il loro possibile intreccio con i social network, ha reso e renderà sempre di più il tema della difesa della privacy individuale centrale. Anche su questa specifica problematica, la definizione dell’euro digitale dovrà compararsi con le caratteristiche degli altri strumenti di pagamento – a partire dalle banconote – tenendo conto delle peculiarità istituzionali e tecniche che definiscono la produzione e la distribuzione delle monete. Un esempio è il ruolo che può giocare la natura dell’emittente della moneta digitale. Finora abbiamo fatto riferimento alla moneta pubblica, ma l’emittente può anche essere privata: si pensi alle banche o al tentativo in corso da parte di Facebook di emettere una propria moneta, denominata Libra. Dunque è ampio il ventaglio di domande che la nascita dell’euro digitale propone. Ma le risposte iniziano a emergere, anche originali e coerenti come quella del doppio euro. L’importante è non fermarsi.
Anche perchè le proposte alternative in tema di monete pubbliche digitali non mancano. Nell’estate dello scorso anno il governatore della Banca d’Inghilterra lanciò l’idea di una moneta che fosse al contempo pubblica, elettronica e sovranazionale. La proposta scaturisce da una prospettiva indubbiamente interessante. In linea di principio, un ordinato sviluppo degli scambi globali, sia reali sia finanziari, avrebbero tutto da guadagnare dalla presenza di una moneta che sia al contempo pubblica, elettronica e gestita come un bene pubblico mondiale. A ben vedere, è la semplice trasposizione a livello planetario delle ragioni che hanno portato – faticosamente e dopo un lungo percorso – tutti i Paesi – soprattutto quelli democratici e al contempo dotati di una economia di mercato – a togliere la moneta nazionale dal controllo dei politici e affidarla a banche centrali indipendenti.
Ma quali sono i pilastri su cui si poggia una moneta mondiale? La storia e la scienza economica ci raccontano che una valuta diventa moneta mondiale quando garantisce almeno due delle tre proprietà sopra ricordate. Da un lato, una moneta mondiale deve minizzare i rischi di illiquidità; dall’altro lato, deve minimizzare i rischi di deprezzamento. Per cui la storia delle monete mondiali è una storia di cicli, dove lo Stato che produceva l’ambita valuta è stato di volta in volta diverso nei secoli: Venezia, Genova, Amsterdam, la Spagna, il Regno Unito, gli Stati Uniti, giusto per evocare suggestivi esempi di epoche diverse nel nostro emisfero occidentale.
Ma sempre la storia e la scienza economica ci raccontano anche un’altra regolarità: gli Stati che producono la moneta di riserva hanno dei vantaggi economici e politici nello svolgere tale funzione. Certo, emettere una moneta mondiale non è un pasto gratis: il fatto che, per esempio, il dollaro venga utilizzato come moneta mondiale negli scambi reali e finanziari – cioè che ci sia una domanda mondiale di dollari – potrebbe condizionare la politica monetaria statunitense. Almeno in linea di principio: nella realtà – sempre nell’esempio del dollaro – la sensibilità della Baca centrale degli Stati Uniti (Federal Reserve System-FED) al contesto internazionale è stata finora sempre strumentale agli interessi interni. Per esempio, negli ultimi tempi la FED ha preso a far riferimento al contesto internazionale quando ha dovuto rafforzate la scelta – già presa per ragioni squisitamente interne – di allentamento della politica monetaria.
Ma torniamo alla proposta di una moneta mondiale digitale: perchè mai un Paese sovrano – o meglio, dei politici nazionali – dovrebbero rinunciare volontariamente ai vantaggi di produrre una propria moneta, per delegarne la gestione a una banca centrale mondiale indipendente? La nascita delle banche centrali indipendenti – BCE inclusa – è stata possibile sono quando i politici nazionali hanno visto un vantaggio immediato nel delegare la politica monetaria. Per avere una moneta pubblica globale ci dovrebbe essere la collaborazione attiva e sistematica di tutti i Paesi, inclusi Stati Uniti e Cina. È possibile che qualcuno seghi l’albero su cui è seduto? Come minimo è improbabile.
La improbabile realizzabilità politica di una super valuta mondiale non deve però affossare il dibattito sull’altro aspetto della proposta: l’avere una moneta pubblica elettronica. È questa la vera sfida per banche centrali e regolatori: offrire a famiglie e imprese una moneta digitale pubblica che aumenti le loro possibilità di scelta.
Per saperne di più:
R. Auer, G. Cornelli, J. Frost, Rise of the Central Bank Digital Currencies: Drivers, Approaches and Technologies, CEPR Discussion Paper Series, n. 15363, 2020.
European Central Bank, 2020, Report on a Digital Euro, October, 2nd .
D. Masciandaro, «Central Bank Digital Cash and Crypto-Currencies: Insights from a Baumol-Friedman Demand for Money», Australian Economic Review, 51(4), 2018, pp. 1-11.
F. Panetta, «21st Century Cash: Central Banking, Technological Innovation and Digital Currency», in E. Gnan, D. Masciandaro (a cura di), Do We Need Central Bank Digital Currency? Economics, Technology and Institutions, SUERF Conference Proceedings, 2, 2018, pp. 23-32.
Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.
[1] U. Bindsell, F. Panetta, «Central Bank Digital Currency Remuneration in a World with Low or Negative Nominal Interest Rates», Voxeu.org, 5 ottobre 2020.