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01/11/2020 Cecilia Attanasio Ghezzi

La svolta di Pechino e la strategia della «doppia circolazione»

I vertici del Partito comunista cinese hanno deciso che il Paese farà sempre più affidamento alla domanda e all’innovazione interna, ricorrendo ai mercati e agli investitori esteri solo in seconda battuta. Si tratta di un’ulteriore evoluzione del «capitalismo di Stato» che oltre alla riduzione della povertà e all’aumento della mobilità, cercherà di incanalare l’innovazione propria del privato in un percorso economico disegnato dall’alto e portato avanti dalle grandi aziende pubbliche, passando dal «made in China» al «created in China». Anche a costo di rimanere isolati.

Si è concluso nei giorni scorsi il quinto Plenum del Partito comunista cinese, che ha riunito i circa duecento membri del Comitato centrale accorsi per definire – a porte rigorosamente chiuse – i dettagli del 14° piano quinquennale della Repubblica popolare cinese (2021-2025) e la strategia a medio-lungo termine «Vision 2035», ovvero come diventare un Paese fuqiang, ricco e potente. Se di quest’ultima non abbiamo particolari dettagli se non la conferma a muoversi verso una «modernizzazione socialista», il nuovo piano quinquennale gira tutto intorno a un concetto chiave introdotto dal presidente Xi Jinping in persona a maggio scorso: la «doppia circolazione». Una definizione tecnocratica che cela il piano per evitare la stagnazione e affrontare l’incertezza economica globale.

L’idea è quella di puntare sul circuito economico domestico e, solo in seconda battuta, sull’integrazione economica con il resto del mondo. Non è un caso che negli ultimi mesi Xi abbia visitato una fattoria, parlando di come il Paese fosse in grado di produrre il cibo necessario a tutta la nazione, e un centro di innovazione tecnologica dove ha mostrato come la Cina sia all’avanguardia nella crittografia quantistica applicata all’industria di smartphone e microchip. «Il mondo è entrato in un periodo di turbolenze e trasformazione», ha spiegato ai migliori economisti del Paese qualche settimana fa. «Dovremo affrontare i venti avversi e le correnti contrarie che vengono da fuori, per questo la Cina dovrà fare passi da gigante nelle tecnologie chiave il prima possibile»[1].

Tradotto per le orecchie meno avvezze al linguaggio propagandistico, significa che la leadership comunista ha deciso: bisogna fare affidamento alla domanda e all’innovazione interna. Da oggi i mercati e gli investitori esteri saranno solo il secondo motore di crescita. Secondo un’analisi di Milano Finanza[2], che a sua volta cita Euler Hermes, società di assicurazione crediti del gruppo Allianz, le conseguenze di questa scelta economica saranno più pesanti per Paesi quali la Malesia, Singapore, la Thailandia, il Cile, con perdite che oscillano tra il 6,5 per cento e il 5 per cento del PIL e con un picco di oltre il 10 per cento per Taiwan. L’Eurozona dovrebbe contenere l’effetto attorno allo 0,9 per cento, l’Italia all’1 per cento con ricadute soprattutto nel settore dei macchinari, delle costruzioni e dell’agroalimentare.

Per Pechino oggi la sfida è scavallare la trappola del reddito medio e limitare gli effetti del decoupling statunitense e della pandemia. La ricetta è antica e cara ai Paesi autoritari quando si arroccano: autarchia e autosufficienza energetica ed economica. Ma in questo preciso momento significa anche prepararsi al peggior scenario possibile e svincolarsi sia dalla domanda di un mondo che non riesce a tenere a freno i contagi di Sars-Cov-2 sia dalla dipendenza da Washington in alcune industrie chiave come quella dei semiconduttori. Significa varare misure che aiutino il settore dei servizi e ridurre le diseguaglianze. I poveri, si sa, hanno un’attitudine al risparmio che mal si coniuga con la necessità di far esplodere i consumi interni. Elevare la loro qualità della vita significa redistribuire ricchezze, facilitare la mobilità interna e favorire ulteriormente il trasferimento di individui dalle campagne alle città cercando una soluzione al complesso sistema degli hukou, una legislazione di origine maoista che lega i diritti dei cinesi al loro luogo di nascita creando una dicotomia ancora irrisolta tra aree rurali e aree urbane del Paese. Ma soprattutto significa innovare in quei settori che saranno fondamentali nel futuro: intelligenza artificiale, domotica, trasporti elettrici e tecnologie verdi.

La strada è tracciata e l’Economist l’ha già ribattezzata «Xinomics»[3], spiegandola come un’ulteriore evoluzione del «capitalismo di Stato». Sempre di più si cercherà di incanalare l’innovazione propria del privato in un percorso economico disegnato dall’alto e portato avanti dalle grandi aziende pubbliche. La sfida è passare dal «made in China» al «created in China», anche a costo di rimanere isolati.

Cina isolata