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L’editoria tra passione e business
Colloquio con Carlo De Benedetti
Prima di parlare della sua nuova iniziativa editoriale, vorrei farle alcune domande sulla sua esperienza precedente. Lei è infatti presente nel mondo dell’editoria dagli anni Ottanta. In questi trent’anni ha osservato l’evoluzione del panorama editoriale italiano e il declino della stampa, prima a causa della televisione e poi di internet. Un declino che ha riguardato il contesto internazionale e naturalmente anche quello italiano. In questo scenario, come si è collocata la Repubblica? E quali sono state, nella sua esperienza di editore di questo giornale, le cose positive e quelle negative?
L’esperienza più negativa riguarda un errore commesso da tutti gli editori, me compreso. Quello cioè di aver fatto, con l’avvento di internet, l’associazione mentale tra gratuità della rete e gratuità delle edizioni web dei giornali che si aggiungevano alle edizioni di carta. È incredibile pensare come un prodotto, che agli editori comunque costava, venisse reso disponibile gratuitamente ai lettori, pensando che la pubblicità su internet potesse coprirne le spese. In questo modo è stata applicata al web la stessa formula che aveva tenuto in piedi la carta per tanti anni. Dimenticando però che in quest’ultimo caso la pubblicità è sempre stata affiancata dalla vendita dei quotidiani in edicola. Per quanto riguarda il mio periodo a Repubblica, non vedo particolari errori commessi durante un percorso di vita così lungo. Poi certamente noi abbiamo una storia, cioè Repubblica ha una storia – come vede inciampo e dico ancora «noi» – fatta per vent’anni da due grandissimi direttori come Scalfari e Mauro. Sostituire personaggi di così grande calibro ha creato degli scompensi nel giornale, questo è normale. E probabilmente sono stati fatti degli errori nella scelta delle persone.
Da questo punto di vista, qual è il rapporto tra editore e direttore? Nel caso specifico di Repubblica, in cui il primo direttore era anche il fondatore del giornale, è stato un rapporto facile o complicato?
Con Eugenio [Scalfari] ho avuto sempre un ottimo rapporto, ma devo dire che con lui la mia funzione era limitata agli aspetti più manageriali che editoriali, come l’acquisizione di testate locali o delle radio. Questo perché Eugenio era direttore, fondatore e inventore di Repubblica: è stato tutto nel giornale, per cui non c’era neanche lo spazio per un editore, l’editore era lui. Con Mauro il rapporto è stato eccellente (era già buono quando lui era direttore de La Stampa) ma è stato di tipo diverso. Gli aspetti editoriali sono sempre stati frutto delle sue scelte e io l’ho sempre supportato e ho sempre condiviso le sue idee. Non posso dire che io abbia avuto un ruolo editoriale durante la sua direzione. I rapporti tra editore e direttore non sono codificati, dipendono cioè sempre dalle persone. Certamente i miei rapporti con Scalfari e con Mauro sono stati entrambi un po’ straordinari, rapporti che non mi è capitato di ricostruire con altri.
L’editore ha però anche una responsabilità economica.
Sì, assolutamente. A un direttore bisogna far fare il suo lavoro, ma non bisogna lasciargli in mano i conti dell’azienda, perché non ha una competenza specifica in questo campo. Sarebbe inoltre in qualche modo una contraddizione, perché un direttore vorrebbe il suo giornale sempre più bello, con più collaboratori, ricco di fotografie straordinarie. Tutte richieste legittime ma che non sempre è possibile realizzare. Un editore deve pensare con molta responsabilità – soprattutto in questi tempi magri che durano ormai da tempo – al conto economico, perché non bisogna dimenticare che la positività del conto economico è alla base dell’indipendenza del giornale. L’editore può essere una persona straordinaria in termini di indipendenza, ma quando deve poi andare a chiedere la pubblicità da cui dipende, inevitabilmente è portato a perdere gradi di libertà; o perlomeno, se non li perde, si ritrova potenzialmente in una posizione di debolezza.
La ricerca dell’equilibrio economico si riflette anche nella linea editoriale? L’editore non esercita pressioni sul direttore affinché la linea editoriale si adegui alle necessità economiche?
Questo non è mai stato il mio caso, non mi sono mai trovato in questa situazione e sono contento di non averla dovuta sperimentare. Mi ricordo la prima ristrutturazione importante che ci fu a Repubblica. Chiamai Mauro e gli dissi: «I conti dimostrano che bisogna che riduciamo di ottanta giornalisti, riflettici e ritorna da me fra una quindicina di giorni in cui hai ripensato il giornale in funzione di questa esigenza che non è rinviabile». Mauro ritornò da me e, in maniera molto trasparente, disse: «Ok, lo capisco e questa è la mia proposta», e mi presentò una nuova struttura che rifletteva la necessità di riduzione del personale. Questa è stata la mia esperienza, e come si vede si è trattata di un’esperienza molto collaborativa. Così come io non interferivo nella linea editoriale del direttore, lui si fidava della mia richiesta di riduzione dei giornalisti, reputandola nell’interesse dello stesso giornale e della sua indipendenza. Ognuno aveva fiducia dell’altro e delle rispettive responsabilità. Non potevo certo aspettarmi che fosse il direttore a dirmi di doversi privare di alcuni giornalisti. Sarebbe stata una contraddizione in termini.
Veniamo alla sua nuova iniziativa editoriale Domani, che esce il 15 settembre. Vista l’importanza del conto economico, le chiedo subito: si tratta di un’opportunità di business o è un progetto che comunque non deve essere in perdita anche senza fini di lucro?
Io penso che tutte le attività economiche debbano avere un fine di lucro, altrimenti sarebbero un po’ degli zombie. Questo perché da una parte ci sono dei costi reali, dall’altra ci devono essere dei ricavi altrettanto reali e non dei ricavi – diciamo così – di piacere. Tra l’altro da imprenditore non sarei neanche capace di trarre soddisfazione da un’iniziativa nata per perdere. Il conto economico è comunque l’obiettivo di ogni iniziativa imprenditoriale, che sia editoriale o no, ma è anche il mezzo per mantenere quell’indipendenza che è alla base della mia filosofia di editore, del mio approccio all’editoria.
Domani è un’iniziativa che parte rovesciata rispetto alla tradizione dei giornali. Storicamente i giornali sono nati come cartacei e poi, con l’avvento di internet, hanno aggiunto un’edizione digitale commettendo quell’errore che le ho menzionato all’inizio, cioè della sua totale gratuità. Questo giornale nasce digitale e si appoggia alla carta solo come simbolo di nobiltà, nel senso che un giornale non è considerato tale se non ha anche una versione cartacea. Per noi il numero di copie vendute in edicola sarà motivo di grande delusione o soddisfazione, ma non impatterà sul nostro conto economico o lo farà solo in maniera molto marginale. La vera sfida per noi sono gli abbonamenti digitali. Da un punto di vista economico, l’iniziativa avrà successo in funzione del numero di abbonati digitali che riusciremo a ottenere. Abbiamo un break-even che ci consente di vedere questa iniziativa in utile dopo la fase di startup, naturalmente nel limite in cui il nostro prodotto – il prodotto che faranno il direttore e i suoi collaboratori – avrà successo
Precisato questo, se lei mi chiede perché lo faccio, è anche perché ho una grande passione per il giornalismo e perché mi è parso che nel panorama attuale dell’editoria italiana, dopo quanto avvenuto negli ultimi anni, non ci sia più una voce in cui il lettore cosiddetto «riformista» – diciamo sensibile ai problemi delle disuguaglianze e che in qualche modo vicino a una sinistra europea e moderata – possa trovare rappresentanza. Oggi, infatti, esistono soltanto giornali di destra e giornali di centro come il Corriere della Sera, che storicamente è sempre stato in quella posizione e che è quindi naturale che continui a collocarsi in quell’area. Altri giornali, invece, hanno deciso di cambiare il loro riferimento politico, lasciando molti lettori «vedovi». Penso dunque che ci sia un potenziale notevole per un giornale posizionato nell’area riformista.
Quindi è giusta l’interpretazione secondo cui questo spazio si è creato perché Repubblica ha abbandonato la posizione che occupava?
Non c’è dubbio. Quando Repubblica faceva Repubblica questo spazio non c’era perché era pienamente occupato. Questa è una delle ragioni per cui non ci sono pubblicazioni di sinistra. Repubblica ha ucciso l’Unità e Paese Sera. Pur essendo molto più moderata di questi due quotidiani, non dava loro spazio perché copriva tutto. Copriva, in maniera devo dire estremamente valida, tutto un ampio arco che non era necessariamente solo di sinistra, ma che comprendeva anche la borghesia illuminata, fatta di lettori che si rendevano conto sia dell’importanza dei temi sociali per la tenuta della collettività, sia della necessità di stare dalla parte dei deboli. Ecco, questo era lo spazio di Repubblica. La grande intuizione e la grande capacità che Scalfari e Mauro hanno avuto è stata quella di coprire tutta quell’area.
Quindi se non ci fosse stato questo cambiamento di Repubblica di fatto non ci sarebbe stato spazio per Domani?
È esatto. Inoltre – e premetto che il mio non è assolutamente un revanscismo nei confronti di Repubblica, e questo l’ho dimostrato non prendendo nessun collaboratore di quel giornale – aggiungo che l’ultima cosa che voglio fare è la ripetizione di un capolavoro. Repubblica è stato uno straordinario successo che non può essere replicato perché i tempi sono cambiati. Per questa mia nuova esperienza ho scelto una redazione tutta di giovani, con un direttore che compirà tra poco 36 anni e un grande equilibrio di genere. Si tratta forse dell’unica redazione italiana che ha ugual numero di uomini e donne, e questo non è un semplice obiettivo raggiunto, ma un modo diverso di concepire il lavoro. Domani non è quindi una copia di Repubblica perché non vuole esserlo: noi non abbiamo cronaca né sport. Si tratta di un giornale molto concentrato sulle questioni politiche e sociali e con una foliazione ridotta rispetto a Repubblica.
In altre dichiarazioni lei ha sottolineato che Domani ha intenzione di rivolgersi a un pubblico giovane. I “vedovi” di Repubblica non sono però solo persone giovani. Inoltre, i giovani non sono generalmente lettori di quotidiani e in genere preferiscono beni gratuiti. Non vede una contraddizione in questo?
No, e le spiego. Mi voglio rivolgere in modo giovanile a tutto il pubblico, di giovani e non giovani, che si riconoscono in quell’area culturale che vede le disuguaglianze come il primo problema delle società moderne. La nostra vuole essere un’iniziativa di grande indipendenza che, non avendo nessun vincolo, neanche psicologico nei confronti di potentati politici o economici, ha la totale libertà di poter fare quello che il giornalismo dovrebbe fare, e cioè fare le pulci al potere. Che non vuol dire criticare a priori il governo, ma essere liberi di giudicarlo per le cose che fa. Poi può darsi che il nostro giudizio sia sbagliato. In questo i giovani sono molto più attrezzati di noi, nel senso che sono capaci di guardare le cose senza pregiudizi. Questa libertà mentale è una caratteristica della gioventù.
Stefano Feltri, il direttore che lei ha scelto per Domani, è sicuramente giovane. Lei lo definisce anche un direttore di sinistra?
Non lo so. Io lo definisco un direttore anomalo nel panorama italiano. Innanzitutto, perché non mi risulta che ci siano altri direttori di giornale che abbiano fatto la Bocconi (ed è anche stato per un periodo di studio a Chicago). Inoltre ho apprezzato le sue cognizioni non comuni in ambito economico. Più che di sinistra è un liberal-democratico. Quello che gli ho chiesto è di ricordarsi che noi staremo sempre dalla parte dei più deboli e sempre dalla parte di chi fa il controllore severo dei poteri economici e politici.
Il prossimo numero della nostra rivista è dedicato al rapporto tra capitale e lavoro. Si tratta di una contrapposizione che ha avuto diverse fasi e intensità, e sembra che negli ultimi anni il lavoro ne sia uscito sconfitto. Lei, esponente del capitale da una parte ed editore di giornale che sta attento agli ultimi dall’altra, come interpreta la situazione attuale di tale contrapposizione?
Il discorso sarebbe molto complesso e articolato. Diciamo che ci sono stati due elementi fondamentali che hanno cambiato in maniera radicale tale rapporto. Da una parte la deflazione che c’è stata sul lavoro, dall’altra l’inflazione che c’è stata sugli asset, sul capitale. È questa la base che ha creato le disuguaglianze. Le disuguaglianze sono sempre esistite, però negli ultimi dieci anni sono aumentate a un livello che io considero non tollerabile. Il lavoro è stato deflazionato come conseguenza della globalizzazione. È evidente che tutta la manifattura, se non quella estremamente sofisticata e specializzata o legata al bello e alla cultura, tipiche dell’ingegno italiano, siano state sacrificate da tale fenomeno. Questo perché un operaio che lavorava in una manifattura tessile italiana è stato equiparato a un operaio che lavorava in Pakistan, in Vietnam o in Cina, quindi inevitabilmente è stato svalutato il suo lavoro. Dall’altra parte, la politica delle banche centrali, che ha portato a tassi sempre più bassi, per arrivare addirittura a tassi negativi, ha gonfiato il valore degli asset. È quindi un fenomeno che non deriva tanto dal rapporto tra capitale e lavoro, ma dalla globalizzazione e dalle politiche delle banche centrali. Questo ha divaricato in maniera oggettiva i termini del confronto al di là dei rapporti tra Confindustria e sindacati – rapporti tra due mondi che devono confrontarsi e collaborare – superando le parti, cioè andando al di sopra del sindacato e degli industriali. Sono emersi due fenomeni – la deflazione sul lavoro e l’inflazione degli asset – che non erano controllati né dai sindacati, né dagli industriali e questo ha portato a una situazione intollerabile.
A questo riguardo, come giudica l’operato dell’attuale Confindustria e l’atteggiamento – secondo alcuni di aggressività – del suo vertice?
Lo giudico malissimo. Io ho fatto il presidente degli industriali a Torino e in Piemonte, sono stato per otto anni vicepresidente di Confindustria e sono scandalizzato dall’attitudine dell’attuale vertice del sindacato degli industriali. Mi ha stupito l’aggressività e il disprezzo dell’opinione degli altri. Non ne capisco lo scopo e lo ritengo un atteggiamento estremamente negativo per il Paese e per gli industriali. A che cosa serve dire che il governo ha fatto più danni del Covid-19? Che cosa ti proponi di ottenere quando dici una frase del genere, quando sei a capo di un’organizzazione che deve pensare agli interessi dei suoi associati? Che cosa ottengono gli associati da una frase del genere? Nulla, se non un reciproco astio aprioristico. Lo stesso atteggiamento lo si vede nel rapporto con i sindacati quando gli si dice: “Noi vogliamo una nuova legislazione del lavoro, sediamoci a un tavolo e discutiamo”. Mi sembra un approccio così semplicistico, oltre che arrogante, il modo attuale adottato dalla Confindustria che ne sono molto dispiaciuto.
Io non sono certamente tenero nei confronti del governo e credo che siano molte le cose che ne lasciano intuire la debolezza. La vicenda Covid-19 ha oscurato il problema politico di fondo, cioè come modificare e migliorare la situazione strutturale di un Paese che è da dieci anni che non cresce. Abbiamo dei problemi seri che sono preesistenti a questo governo. Non vedo però nell’agenda dell’attuale esecutivo un’idea di come invertire la tendenza. L’atteggiamento corretto credo debba andare nel senso di una critica collaborativa, senza essere succubi o servi del governo e nemmeno proponendo una critica fine a sé stessa. Va quindi evitato di iniziare un confronto con le frasi che ho ricordato prima e che sono inaccettabili.
Quindi diciamo che su Domani leggeremo posizioni critiche sia nei confronti del governo, sia nei confronti di Confindustria e degli industriali?
Certamente, ma anche nei confronti del sindacato.