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05/08/2020 Roberto Ruozi

Le scelte da fare tra economia reale e settore bancario

Le nostre autorità si sono sempre preoccupate di gestire prima la crisi del settore bancario e poi quella dell’economia reale. In questa difficile fase del nostro Paese sarebbe però opportuno occuparsi innanzitutto della crisi dell’economia reale, sostenendo il mondo imprenditoriale nel difficile percorso verso la ripresa

Nella grande confusione che regna in materia economica e finanziaria da quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, si discutono, si adottano e si auspicano provvedimenti di varia natura, fra i quali assumono particolare importanza quelli miranti a salvare le banche, ma anche l’economia reale. I due fenomeni sono in effetti molto correlati anche se in modi non sempre chiari ed esigono provvedimenti diversi e da adottare secondo precise sequenze temporali. Il problema fondamentale è sapere se è bene salvare prima le banche per salvare in successivamente anche l’economia reale o se è meglio salvare prima l’economia reale per poi salvare anche le banche.

Se analizziamo quanto sta accadendo, sembra che la priorità sia assegnata ai salvataggi bancari, che sono sempre stati al centro dell’attenzione delle pubbliche autorità anche in tempi assai recenti. Tale constatazione è comprovata da almeno due fatti accaduti negli scorsi mesi. Il primo risiede nelle parole che il governatore della Banca d’Italia ha pronunciato in occasione dell’Assemblea dei partecipanti di fine maggio. Visco ha detto che la recessione non potrà non avere effetti sui bilanci bancari, che l’aumento dei crediti deteriorati andrà affrontato per tempo e che si dovrà essere pronti a percorrere soluzioni che salvaguardino la stabilità del sistema, «valutando il ricorso a strumenti che agiscano in via preventiva per le banche che versino in una situazione di serie, anche se presumibilmente temporanee, difficoltà». Il governatore ha proseguito ricordando che la recessione potrà aggravare i problemi di alcuni intermediari non dotati di ampie riserve patrimoniali, in particolare banche di piccole dimensioni e con modelli di attività tradizionali, e ha infine ribadito con una certa preoccupazione l’inadeguatezza del sistema europeo di gestione delle crisi bancarie.

Il secondo fatto che si può riscontrare è il recente decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, secondo il quale, al fine di evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia e preservare la stabilità finanziaria, il ministero dell’Economia e delle finanze (MEF) è autorizzato, nei sei mesi successivi all’entrata in vigore del decreto, a concedere la garanzia dello Stato su passività delle banche aventi sede legale in Italia fino a un valore nominale di 15 miliardi di euro. Inoltre, prosegue il decreto, per assicurare l’ordinato svolgimento delle eventuali procedure di liquidazione coatta amministrativa delle banche diverse da quelle di credito cooperativo, con attività totali di valore pari o inferiore a 5 miliardi di euro, il MEF è autorizzato a concedere il sostegno pubblico alle operazioni di trasferimento a una banca acquirente di attività e passività, di azienda, rami d’azienda nonché di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco della banca in liquidazione coatta amministrativa.

Le nostre autorità temono quindi una grande crisi dell’economia reale che potrebbe creare instabilità nelle banche, e si preparano a gestire gli eventuali scossoni di queste ultime, dimostrando attenzione ai tempi, che si presumono brevi. Il loro è un atteggiamento di buon senso e prudente, e parte dal presupposto che le crisi bancarie, quando non sono motivate da comportamenti disonesti dei loro vertici o da incaute aggregazioni che hanno loro imposto pesanti avviamenti, difficili da sostenere e smaltire nel tempo (casi in verità rari), sono storicamente dovute soprattutto alle crisi delle imprese cui hanno concesso crediti. È sempre più o meno accaduto così. Ed è anche più o meno sempre accaduto che, invece di preoccuparsi di evitare la crisi delle imprese, cioè dell’economia reale, le nostre autorità si sono preoccupate innanzitutto di gestire le crisi bancarie che a esse conseguono.

Le motivazioni di questa priorità sono essenzialmente dovute al fatto che, salvando le banche in crisi, si tutelano i loro creditori e, in particolare, i piccoli e medi risparmiatori che hanno loro affidato le proprie risorse. La tutela del risparmio è sancita dalla Costituzione repubblicana e perseguita anche dalla solidarietà del sistema bancario sia attraverso il Fondo interbancario di tutela dei depositi, sia attraverso operazioni di acquisizione in varia forma delle banche in crisi da parte di quelle in buona salute. La preoccupazione di gestire al meglio le crisi bancarie non ha invece mai specificamente riguardato le conseguenze che tali crisi potrebbero procurare sull’economia reale, le quali sono per contro molto importanti. In effetti, conseguenze del genere ci sono sempre state, anche se quasi esclusivamente per via indiretta e in tempi successivi alla crisi delle banche. Il problema è più dei creditori (le banche nella fattispecie) che dei debitori (le imprese affidate e quindi l’economia reale). Comunque, è evidente che l’interesse delle imprese clienti, soprattutto ai fini del loro sviluppo sostenuto dal credito bancario, è quello di avere banche forti e non in crisi. Ed è altrettanto evidente che le banche hanno bisogno di un’economia forte per andare bene.

Mi chiedo quindi se non sarebbe opportuno che le autorità si occupassero innanzitutto della crisi dell’economia reale e poi di quella delle banche, le quali, una volta superata la prima, riuscirebbero quasi automaticamente a risollevarsi.

Il problema è che la prevenzione e la gestione delle crisi del mondo produttivo non sono facili, come dimostra anche l’attuale situazione del nostro Paese. Le difficoltà che si incontrano in proposito sono molteplici. Innanzitutto vi è l’obiettiva complessità delle soluzioni possibili, anche se le linee sulle quali occorrerebbe muoversi sono ormai pressoché unanimemente condivise. Bisogna in verità riconoscere che sono stati effettuati alcuni interventi utili come quelli mirati al finanziamento automatico delle imprese con l’assistenza della garanzia della SACE, il potenziamento della cassa integrazione e l’incentivazione delle startup. Il governo e i tecnici che lo consigliano continuano tuttavia a girare attorno alle cose fondamentali che occorrerebbe fare – pur sapendo che andrebbero fatte – ma non hanno la volontà o la forza di farle. L’importanza dell’apparenza e dell’impatto comunicativo (e politico/elettorale) dei provvedimenti è diventata prioritaria rispetto a quella della sostanza dei problemi e, una volta approvati i provvedimenti che potrebbero contribuire a risolvere la crisi del nostro sistema produttivo, l’interesse del mondo politico e quello della burocrazia che con esso collabora cala vertiginosamente, e l’efficacia dei suddetti provvedimenti spesso muore con la relativa emanazione. Questo crea le difficoltà di cui parlavo, che hanno comunque anche qualche riflesso benefico perché potrebbero coinvolgere positivamente il mondo imprenditoriale, il quale, di fronte alle incertezze e alle indecisioni di chi dovrebbe sostenerlo nella ripresa, è molto sfiduciata e fa ben poco per uscire dall’impasse.

Addossare tutte le colpe alla classe politica, ai tecnici e ai burocrati che con essa collaborano non è giusto, ma è indubbio che in buona parte essi forniscono sostegni assai deboli allo sviluppo quando addirittura non ne diventano un freno. Non so se riusciremo a vincere la battaglia economica contro il virus (e non solo), ma il futuro, almeno nell’immediato, non è brillante. C’è da augurarsi che gli imprenditori, quali che siano gli atteggiamenti delle autorità, riprendano fiducia in se stessi e nelle loro aziende e si diano da fare. Attualmente sono soli o quasi soli, ma la solitudine non è per essi un fatto nuovo. L’hanno saputa vincere tante volte negli anni passati, sapranno vincerla pure nei prossimi mesi. Anche per le banche sarebbe la fine di un incubo che le sta tormentando come non mai.

 

Roberto Ruozi è Professore emerito dell'Università Bocconi

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