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Il pugno di ferro di Pechino
Con un minuto di silenzio e due mesi di ritardo, è cominciata la lianghui, letteralmente «la doppia assemblea». Si tratta dell’appuntamento politico più importante della Repubblica popolare cinese: quasi cinquemila rappresentati governativi arrivano da tutta la Cina per «discutere» e ratificare budget e leggi per il prossimo anno. Un appuntamento che si rinnova ogni marzo ma che quest’anno, a causa della pandemia, è stato posticipato. I membri dell’Assemblea nazionale del popolo, ovvero ciò che più somiglia al nostro parlamento, indossano tutti la mascherina. Solo la prima fila è a volto scoperto. Lì siedono i sette membri del Comitato permanente del politburo e Wang Qishan, vicepresidente e braccio destro di Xi Jinping. Nella cornice rosso e oro della grande sala dal popolo, l’immagine restituita a reti unificate parla da sola: «Abbiamo vinto la guerra contro il virus, la nostra leadership è forte». Ma in verità niente sarà uguale a prima.
Per la prima volta in trent’anni, il partito comunista non fissa un obiettivo di crescita. E sì che quest’anno era particolarmente importante. Nella narrazione politica dello Stato più popoloso del mondo, il 2020 era l’anno in cui si sarebbe sconfitta definitivamente la povertà per arrivare a vivere in «una società moderatamente prospera». L’ultima tappa prima della realizzazione del «sogno cinese», ovvero festeggiare il centenario della fondazione della Repubblica popolare nel 2049 come potenza mondiale.
Bastava un +5,5 per cento e invece il blocco totale delle attività produttive e commerciali ha causato un disastroso crollo: -6,8 per cento nel primo trimestre del 2020. «Ci troviamo a dover fronteggiare alcuni fattori di difficile prevedibilità», ha spiegato all’apertura dei lavori il premier Li Keqiang, quello una volta affermò che «le cifre del Pil sono un prodotto umano e, in quanto tale, inattendibile».
La cornice disegnata dalla propaganda di Stato è quella di una situazione senza precedenti da cui però Pechino è già uscita, confermando la sua forza e la sua velocità di ripresa. Le sfide economiche e la situazione internazionale però, sono «ostili e complicate» come mai negli ultimi trent’anni. E da subito, si capisce che la leadership del Partito ha scelto di affrontarle con il pugno di ferro.
Si chiede di rafforzare «la responsabilità politica» di Hong Kong, «inalienabile parte del Paese», senza far riferimento a «un Paese, due sistemi», la formula che garantisce una certa autonomia all’ex colonia britannica fino al 2047. Si parla di Taiwan senza far riferimento al «principio di una sola Cina», quell’illogico accordo per cui formalmente Pechino considera l’isola una «provincia ribelle» mentre Taipei continua a pensare la terraferma come «un territorio della Repubblica cinese esterno all’area di Taiwan».
La politica cinese è complessa e percorre vie sconosciute alla maggioranza della popolazione e degli osservatori di tutto il mondo. Per questo si spiega spesso che è come «interpretare le foglie di tè». Ma questa volta le speculazioni sono durate meno del previsto. La prima notizia è che Pechino si prepara ad approvare una legge sulla sicurezza nazionale che vieta «attività sovversive e secessioniste, interferenze straniere e il terrorismo», senza passare dal mini parlamento di Hong Kong e senza considerare la sua mini-Costituzione.
Una provocazione enorme per la popolazione dell’ex colonia britannica che da quasi un anno manifesta per difendere la propria identità e che era riuscita a far ritirare la legge che avrebbe permesso ai locali di essere estradati in Cina. Ma ovviamente c’è dell’altro. Il futuro della città e il riconoscimento di Taiwan sono ormai parte viva del contenzioso sempre più violento che si è aperto con l’amministrazione Trump. E sono anche temi con cui è facile fomentare il patriottismo più becero. E in tempi di incertezze economiche ce ne può essere bisogno.
Se il governo dichiara che il tasso di disoccupazione salirà di appena mezzo punto rispetto all’anno scorso per arrivare al 6 per cento, sappiamo che si riferisce solo alla popolazione urbana e che non tiene conto delle decine di milioni di lavoratori migranti che hanno perso il lavoro durante il lockdown. Si tratta di quelle persone che lasciano le aree rurali della Cina per cercare fortuna in città: un esercito di operai, camerieri, fattorini e tuttofare che sfugge alle statistiche e che non gode di nessuna forma di protezione sociale.
I numeri, come sempre i numeri cinesi, sono enormi. Le stime più attendibili parlano di una disoccupazione sopra al 20 per cento, ma la situazione potrebbe essere ancora più complicata. Si calcola che circa 200 milioni di posti di lavoro in Cina siano legati alle esportazioni. Ora, se la Cina è riuscita a far ripartire la produzione in tempi record dopo l’epidemia, l’ha fatto nel momento in cui il resto del mondo si è fermato e ha smesso di comprare. Sul settore, inoltre, pesa direttamente la guerra commerciale con gli Stati Uniti. E se collasserà, un terzo dei lavoratori che occupa, cioè l’equivalente di tutta la popolazione italiana, non troverebbe un altro impiego.
E la situazione nazionale e internazionale sicuramente preoccupa la seconda economia. «È necessario esplorare nuovi modi di prepararsi alla guerra», ha dichiarato il presidente all’Esercito di liberazione popolare. E infatti i generali cinesi non possono lamentarsi: nonostante la crisi il bilancio militare quest’anno sarà incrementato del 6,6 per cento arrivando, secondo i dati ufficiali, a 178 miliardi di dollari. Anche se c’è da notare che l’International Institute for Strategic Studies di Londra valuta che si debba sempre aggiungere ai budget militari cinesi un terzo in spese non dichiarate. L’importante, avrebbe sottolineato il comandante in capo Xi Jinping, è che «ogni centesimo venga speso bene».