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Il futuro del nostro sistema bancario
Il dramma sanitario del coronavirus sembra avviato a una soluzione, anche se i relativi tempi non sono ancora certi e vanno affrontati con grande prudenza, come le autorità continuano a raccomandarci. Il dramma economico e finanziario della pandemia non ha invece ancora raggiunto il suo picco e nessuna previsione è possibile su ciò che accadrà nella seconda metà del 2020 e neppure nei due anni successivi. Nonostante la riapertura di numerose imprese, la cui attività è stata sospesa per diverse settimane, l’economia deve ancora scontare le conseguenze di questo fermo e di tutto quello che esso produrrà. Il futuro delle nostre imprese industriali, commerciali e di servizi si presenta quindi estremamente incerto. A questo si aggiungono inoltre i forti dubbi sugli effetti pratici che avranno i numerosi provvedimenti emanati dal governo per cercare di risolvere o almeno contenere alcuni problemi, in primis quello della liquidità. Tale fenomeno viene presentato come l’ostacolo maggiore alla ripresa del mondo produttivo, il quale indubbiamente soffre di carenza di liquidità scontando contemporaneamente le mancate entrate da vendite che non ci sono state, le mancate entrate da parte dei clienti che hanno a loro volta problemi di liquidità e non pagano i debiti e, infine, le scadenze in essere con i fornitori che dovrebbero essere rispettate con uscite di mezzi finanziari che sono purtroppo scarsi o inesistenti.
La verità è che la liquidità – salvo casi particolari da considerarsi più che altro eccezioni che confermano la regola generale – non è mai un problema in sé, bensì è la risultante dell’andamento generale dei ricavi e dei costi delle aziende, i quali non sono tanto determinati da problemi finanziari, quanto piuttosto dalla domanda del mercato per i beni e i servizi da essi prodotti e dalla situazione dei loro clienti e/o dall’offerta dei concorrenti più efficienti e competitivi. L’iniezione di fondi nelle casse di queste aziende può tamponare uno squilibrio di cassa nel breve periodo, ma se i flussi di ricavi e di costi, con l’aumento dei primi e il contenimento dei secondi (che comunque non potrebbero scendere al di sotto di determinati livelli minimi fortemente influenzati dalla componente fissa) non generassero sufficienti flussi di cassa, la liquidità tornerebbe quasi immediatamente a scomparire e le imprese si ritroverebbero esattamente al punto di oggi. Anzi, potrebbero trovarsi ancor peggio perché la liquidità aggiuntiva procurata soprattutto attraverso l’indebitamento aumenterebbe i loro impegni, le cui scadenze arriveranno prima o poi e dovranno essere rispettate.
Il riequilibrio fra costi e ricavi e quello fra entrate e uscite non potrà avvenire in tempi brevi. Il mercato sta vivendo una crisi così forte che solo in un periodo medio/lungo potrà tornare, se tornerà, come era prima dello scoppio della pandemia e del blocco dell’attività economica. Il vero problema delle imprese è quindi quello di vedere se, come e quando ciò avverrà. Va da sé che il futuro non sarà uguale per nessuno e anzi sarà assai diverso non solo fra i vari settori economici, ma anche fra le singole imprese di ciascun settore.
Fra non molto tali imprese si divideranno in due grandi categorie: quelle che riusciranno a superare la crisi quelle che non riusciranno. È opinione diffusa che il numero di queste ultime sarà elevato e questo coinvolgerà in modo diretto le banche che sono i più importanti finanziatori di tutte le imprese del mondo. Proprio perché molte banche si attendono un periodo molto buio caratterizzato da insolvenze maggiori di quelle che hanno caratterizzato gli anni della crisi del precedente decennio, hanno già tenuto conto di questo fenomeno nei conti del primo trimestre di quest’anno, recentemente presentati agli analisti.
Da quanto emerge dai dati e dalle informazioni forniti in questi giorni, le previsioni non sono affatto ottimistiche. Cito alcuni esempi che mi paiono significativi. Per far fronte alle perdite attese sui crediti, il Santander ha accantonato 3,6 miliardi di euro, di cui 1,6 miliardi attribuiti agli attesi effetti del coronavirus, pari complessivamente all’80 per cento in più di quelli dell’analogo periodo dello scorso anno. HSBC ha accantonato 3 miliardi di dollari con un incremento del 417 per cento rispetto al 2019. Anche il Crédit Agricole S.A. ha triplicato le riserve specificamente dedicate a perdite su crediti attese. Gli accantonamenti del primo trimestre di quest’anno a livello di gruppo hanno così raggiunto quasi 1 miliardo di euro. L’insieme di Bank of America, Citigroup, JPMorgan Chase, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley ha accantonato da parte sua ben 25,4 miliardi di dollari. Da noi la situazione è abbastanza diversa da banca a banca, ma nel complesso non dovrebbe differire molto da quella prevista dai gruppi bancari prima citati. Anzi, i commentatori esteri pensano che il caso italiano sarà ancora peggiore vista la più debole situazione della nostra economia.
Se tutto questo accadrà, c’è da chiedersi cosa sarà delle nostre banche, che sono ancora ritenute dai suddetti commentatori fra le più fragili in ambito europeo. Il miglioramento della loro situazione patrimoniale ed economica faticosamente realizzato nel corso deli ultimi anni rischia di essere annullato. La decisione di non erogare dividendi e di ridurre i bonus non aumenterà la capacità di credito come viene ampiamente sbandierato, ma servirà purtroppo, nel migliore dei casi, a far fronte più o meno parzialmente ai colpi che il patrimonio subirà dalle perdite su crediti quando si verificheranno.
Tutto ciò obbligherà le nostre banche, ma anche quelle di tutto il mondo, a rivedere in modo drastico i modelli di business per affrontare adeguatamente un ambito economico e finanziario che il coronavirus ha reso ancora più complesso e difficile di quello che era parzialmente migliorato negli ultimi anni. Il virus sta producendo un innalzamento assoluto e relativo dei debiti dello Stato, delle imprese e delle famiglie e non tiene conto che con i debiti si possono fare tante cose ma, quando essi sono il solo canale di finanziamento dell’economia, sono altamente pericolosi. Non si sono mai viste economie forti con debiti alti. In ogni caso c’è da augurarsi che le banche riescano a superare la crisi che le tormenta. Se così non avvenisse i loro drammi si estenderebbero rapidamente ai loro creditori, che sono poi le famiglie risparmiatrici e a tutta l’economia nel loro complesso. Famiglie e imprese, come peraltro è sempre accaduto, condizioneranno quindi in modo decisivo il futuro delle banche, sul quale sarebbe opportuno che l’opinione pubblica e il mondo politico riflettessero bene.
Roberto Ruozi è Professore emerito dell'Università Bocconi