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14/04/2020 Fabrizio Perretti

I punti cardinali della fase 2

Invece di creare l’ennesimo comitato di esperti, il nostro governo avrebbe potuto chiedere consiglio alle istituzioni di Cina e Corea del Sud: due Paesi che con approcci diversi hanno avuto esperienza diretta nella gestione di una fase successiva della pandemia da Covid-19

In queste ultime settimane il dibattito è ormai focalizzato esclusivamente sulla riapertura e sull’inizio della cosiddetta fase 2. Lo chiedono insistentemente molte imprese e attività commerciali e i loro rappresentanti istituzionali. In diversi casi si tratta di richieste ingiustificate perché in molti settori vi è una crisi della domanda che durerà per diversi mesi, fino a quando le persone non si sentiranno al sicuro. Se, per esempio, tra due settimane riaprisse tutta la filiera del turismo, non vi sarebbero comunque clienti sufficienti in grado di sostenerla. Vi sono però altri settori (soprattutto dei beni intermedi e strumentali) in cui la situazione è diversa. Se siamo tutti fermi, allora il rischio non si pone, ma se alcuni soggetti, in Paesi esteri, ripartono prima di altri allora il rischio è quello di perdere mercati, forse per sempre. In molti Paesi le imprese sono aperte o stanno riaprendo (per esempio in Cina), e queste sono clienti di molte aziende italiane. Qui il rischio della concorrenza è sicuramente maggiore e, a meno che le nostre imprese non abbiano investito in passato su determinati elementi (qualità, marchio, assistenza), la perdita di clienti potrebbe non essere solo temporanea. Da un punto di vista puramente economico – che però non deve mai essere prioritario rispetto ad altri diritti collettivi e alla tutela della salute pubblica – il rischio è quindi reale.

Il governo ha deciso di affrontare questo tema con la creazione di un (ennesimo?) comitato di esperti. E qui sorgono molti dubbi. Innanzitutto perché le competenze per affrontare le decisioni in merito alla riapertura dovrebbero già essere rappresentate dai vari ministeri di cui si compone il governo. Dovrebbero, dunque, già esserci persone che conoscono bene la materia di cui si occupano, che possiedono dati e informazioni e che si interfacciano da tempo con i diversi soggetti di cui è composta la nostra società (imprese, ospedali, lavoratori, università, attività culturali ecc.). Se pensiamo che una singola persona chiamata a far parte di un comitato abbia una conoscenza molto più vasta e approfondita in ciascuno di questi ambiti, questo significherebbe che le nostre istituzioni non sono all’altezza dei compiti loro affidati. Si tratta in ogni caso di un segnale di delegittimazione che si inserisce nella consueta critica – spesso populista – contro la cosiddetta burocrazia, che di fatto però rappresenta un attacco contro lo Stato e le sue istituzioni, a favore di modelli «leggeri» (la rete, gli individui, la meritocrazia che seleziona senza criteri democratici e condivisi i cosiddetti esperti).

Il secondo dubbio riguarda la composizione del comitato. E qui non mi riferisco alle singole persone che sono state chiamate a farne parte, ma alla logica che ne è alla base. Se devo chiedere aiuto su come affrontare la fase successiva, un principio elementare è quello di rivolgermi a coloro che si sono già trovati di fronte a un problema simile, per capire come l’hanno affrontato, quali errori hanno commesso, che cosa non farebbero più e che cosa ha invece funzionato. E qui noi abbiamo due esempi, molto diversi per approccio e per contesto. Il primo è quello della Cina, che ha un sistema politico autoritario e che ha adottato un strategia fondata su un lockdown molto rigido (e che ha deciso di riaprire le attività solo dopo che per diverse settimane consecutive ha avuto un numero giornaliero di nuove persone contagiate pari a zero o a pochissime unità)[1]. Il secondo è quello della Corea del Sud, un Paese democratico che non ha mai chiuso tutte le sue attività, ma ha adottato un approccio più selettivo fondato però sulla raccolta di informazioni (attraverso tamponi e app) molto dettagliato, capillare e con tempi di risposta molto veloci in termini di isolamento dei singoli focolai.

L’approccio italiano è stato inizialmente più simile a quello cinese, ma – risorse permettendo – si capisce che quello coreano dovrà essere d’esempio per una fase successiva. Invece di creare un comitato di persone ad hoc, il nostro governo avrebbe forse dovuto chiedere consiglio alle istituzioni di questi due Paesi. Perché questi sono i veri esperti. Non necessariamente nel senso che sanno che cosa bisogna fare, ma perché se non altro hanno avuto esperienza diretta di una situazione di questo tipo. E questa non è una differenza da poco rispetto al comitato appena nominato. Perché non è stato fatto? Forse perché siamo sempre culturalmente prigionieri di quell’«orientalismo» di cui parlava Said[2], in cui l’Oriente è il luogo dove risiede l’«altro», il «diverso», l’«esotico» e spesso anche l’«inferiore». Un luogo da osservare – anche con meraviglia – ma non da cui imparare, da cui copiare. Quando la Cina ha costruito dal nulla e in tempi record un ospedale abbiamo avuto lo stesso atteggiamento degli umarells che osservano uno spettacolo, non di chi osserva uno tsunami che si avvicina. Lo stesso si può dire dell’atteggiamento che altri Paesi europei hanno inizialmente avuto rispetto a quanto avveniva nel sud dell’Europa a Italia e Spagna. In questo mondo globale, alcuni punti cardinali (Ovest/Est - Nord/Sud) rappresentano ancora profonde e pericolose frontiere culturali. Anche adesso che avevamo l’occasione di imparare da chi ha gestito prima di noi una fase successiva, abbiamo preferito volgere lo sguardo altrove.

 

Fabrizio Perretti è Direttore di Economia & Management e Professore di Strategia Aziendale presso l’Università Bocconi.



[1] Attualmente in Italia viaggiamo ancora intorno a 4000 nuovi contagi al giorno.

[2] E. Said, Orientalismo, Milano, Feltrinelli, 2013.

Fase 2