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La cultura al tempo del coronavirus
Fra i provvedimenti presi nei giorni scorsi dalle autorità preposte a fronteggiare il COVID-19 vi è la decisione di sospendere – oltre all’attività didattica nelle scuole e nelle università, alle riunioni e agli eventi pubblici – le attività di musei, cinema, teatri e luoghi di cultura. E di ridurre ai minimi termini le cerimonie religiose. È evidente che si è trattata di una decisione difficile e di grande impatto, individuale e collettivo. Ed è altrettanto evidente che i contraccolpi economici in molti settori saranno notevoli e di non breve durata.
Il mondo della cultura ha reagito molto velocemente e in modo compatto in due direzioni: da una parte ha segnalato la gravità delle conseguenze della chiusura forzata sulla sostenibilità economica delle organizzazioni culturali; dall’altra si è spesa per immaginare forme sostitutive di fruizione. Oltre agli incitamenti collettivi e alle campagne di comunicazione che rivendicano con orgoglio la capacità di reazione dell’intero settore, musei, teatri e operatori culturali sparsi sul territorio si sono prodigati a segnalare la loro vitalità con la stessa energia con cui segnalano la loro disperazione per via delle porte chiuse, delle luci spente, delle sale vuote.
Può far sorridere il fatto che – davanti a un’emergenza che uccide 20 volte di più di un’influenza di stagione, sposta lo spread, modifica i livelli di inquinamento in Cina, brucia ricchezza sulle borse internazionali e su quella domestica – «i nani e le ballerine» abbiano da lanciare il loro grido di dolore. Qual è l’impatto specifico del coronavirus su questi settori?
Da un punto di vista economico, i danni sui settori culturali sono diretti, indiretti e indotti. I danni diretti sono i mancati introiti da biglietteria e quelli provenienti dai mancati impegni nei confronti degli abbonati. Il carnevale di Venezia è stato chiuso anzitempo, la London Bookfair fra il 10 e il 12 marzo è in predicato e l’Agis ha stimato che i mancati introiti per la cancellazione di 7.400 spettacoli nelle regioni colpite dal blocco ammontano a 10 milioni di euro. Per quanto il periodo di quarantena sarà limitato, i danni economici e soprattutto finanziari per le filiere culturali e creative sono ingenti e diffusi. L’impatto sul capitale circolante di organizzazioni molto fragili è altissimo; anche le istituzioni che ricevono contributi da terzi coprono una parte non indifferente delle proprie spese correnti con introiti da biglietteria. Inoltre, i mancati ricavi si traducono nella maggioranza di casi in mancate vendite, non in vendite posticipate. Se salta una data di una tournée di un cantante, difficilmente sarà recuperata; se salta uno spettacolo in cartellone, difficilmente sarà ricalendarizzato. Va inoltre tenuta in considerazione la stagionalità dei flussi. Per molti musei e teatri questo è un periodo critico per il turismo scolastico: se salta la finestra temporale di questo avvio di semestre, è difficile che la classe riprogrammi la visita per quest’anno. C’è da sperare che, con la cancellazione di eventi, spostamenti e riunioni, gli italiani abbiano deciso di frequentare non solo i supermercati e le farmacie ma anche qualche libreria, che abbiano ascoltato più musica, visto più film a casa (ma su questo aspetto non mi sento ottimista): i beni e le attività culturali sono molto poco fungibili.
I danni indiretti riguardano i mancati introiti collegati alla vendita di biglietti: si tratta di ricavi per prodotti di caffetteria e bookshop, per alberghi e trasporti nel caso di consumi culturali da parte di turisti. Alla spesa da parte del pubblico per prodotti complementari (guardaroba, alimenti, audioguide, souvenir ecc.) vanno aggiunti i ricavi ulteriori connessi all’attività culturale (sponsorizzazioni, contributi, riprese ecc.). Per il 2018 SIAE rileva[1] 2,6 miliardi di spesa al botteghino (per cinema, teatro, concerti, sport, mostre ed esposizioni), 4,8 miliardi di spesa complessiva da parte del pubblico (compresi i prodotti complementari, ma escluse le spese di trasferta e alloggio) 6,8 miliardi di ricavi complessivi per gli organizzatori. Il confronto con i dati relativi a queste settimane e l’equivalente periodo negli anni passati permetterà una stima molto affidabile del costo immediato della chiusura forzata; la durata e l’intensità della ricaduta dipenderà naturalmente dall’evolvere dell’epidemia, dalla reazione emotiva delle persone e dalla durata della quarantena.
Infine, i danni indotti riguardano i collaboratori delle organizzazioni culturali, cioè l’insieme dei fornitori. Anche in questo caso, non sono solo i settori culturali a patire questi contraccolpi, ma l’incidenza del precariato e dei contratti a termine nei settori culturali, oltre a livelli medi di salario molto bassi, è estremamente elevata. Oltre a essere organizzazioni fragili, i settori culturali presentano forme fragili di lavoro. Un conto è provare lo smart working da lavoratore dipendente, altra cosa è non lavorare, altra ancora è non poter provare lo smart working perché il proprio lavoro si può solo realizzare live, in diretta, in mezzo e insieme alle persone.
E qui si innesta la dimensione non economica della cultura al tempo del coronavirus: lo sforzo visibile di portare le organizzazioni culturali fuori dalle proprie porte chiuse e di dare un forte segnale di fiducia da parte di un tassello cruciale della società civile. In questi giorni stanno fiorendo diverse iniziative sui social da parte delle più disparate organizzazioni culturali: anche loro, come molti, responsabilmente giocano il loro ruolo.