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La grande Europa che vorremmo
Da questa crisi usciremo più italiani. La mia speranza, però, è che il Covid-19 ci renda anche più europei.
Se abbiamo riscoperto nella vita quotidiana elementi di vicinanza e solidarietà nazionale, è infatti altrettanto vero che, a livello economico, questo è il momento in cui il grande progetto europeo pensato dai padri fondatori – De Gasperi, Adenauer e Schuman – deve trovare espressione concreta.
Umanamente, e giustamente, ci stiamo aggrappando alla solidarietà. Ma la realtà è che stiamo affrontando una sfida che non avevamo mai previsto, una situazione completamente differente anche dalla grande crisi mondiale del 2008: una vera e propria tempesta perfetta. E ogni tempesta rischia sempre di lasciare dietro di sé uno strascico negativo, quando ci si trova impreparati ad affrontarla.
L’emergenza indotta dal propagarsi del coronavirus ci insegna anche questo. E se il nostro sistema sanitario nazionale – che sta dando il massimo – viene messo giornalmente a dura prova, quello delle imprese è altrettanto sotto pressione e vede scivolare via, sotto il peso della continua cancellazione di ordini o di forniture, la già risicata crescita che era prevista essere nel 2020: intorno al +0,3 per cento.
Sotto questi venti è finita quell’industria che rappresenta per l’Italia una colonna portante sia per l’economica sia per la società. Quando questo periodo sarà passato, non ci confronteremo più con il mondo di prima, ma ci muoveremo nei confini di un «anno zero» dove i principali riferimenti politici ed economici saranno mutati.
Nell'immediato dovremo rimboccarci le maniche per aiutare i territori in Italia che potrebbero essere colpiti dopo il Nord del Paese; e penso in particolare alle regioni del meridione. Passata l’emergenza dovremo pensare a come ricostruire quella che sino a oggi è stata la seconda potenza manifatturiera d’Europa.
La Germania ha già annunciato un piano da 550 miliardi di euro per sostenere le sue imprese. Purtroppo l'Italia non si può permettere un sostegno economico simile. Ed è qui che l’idea di un’Europa forte e presente deve prendere forma: serve un piano Marshall che non discrimini nessuno e ci faccia ripartire tutti insieme. A farsene carico oggi non può che essere proprio l'Unione Europea: solo così potremo superare le chiusure di oggi e ripartire più forti domani.
Ma quali sono, nel concreto, le scelte da compiere? Il primo punto è di carattere normativo, il nostro sistema produttivo è caratterizzato da moltissime aziende che sono all’interno della catena globale del valore. Per essere più chiari, nel nostro Paese ci sono moltissime aziende fornitrici di componenti poste all’interno di lunghe filiere della produzione e che le portano spesso a operare aldilà dei confini nazionali.
L’assunzione dei provvedimenti nazionali a tutela e salvaguardia della salute delle persone, in risposta alla crisi del Coronavirus, stanno incidendo pesantemente sull’esecuzione dei contratti nazionali e internazionali, ritardandone o impedendone l’adempimento.
Tali ritardi e inadempimenti si riflettono a loro volta su altri contratti, creando difficoltà operative e legali lungo tutte le filiere produttive. Il tutto si traduce in pesanti penali per molti imprenditori che, anche a causa di questa situazione, rischiano seriamente dimettere a repentaglio la sopravvivenza delle loro aziende. Diventa dunque prioritario il riconoscimento dell’emergenza Covid-19 – e delle connesse misure di urgenza adottate per contenerla – come causa di forza maggiore.
Per questa ragione, è necessario che il Governo si attivi senza indugi nei confronti dell’Unione Europea affinché emerga rapidamente un orientamento a favore del rilascio di certificati di forza maggiore alle imprese impossibilitate – anche temporaneamente – all'adempimento dei contratti. La necessità di un orientamento europeo uniforme è dettata dall’esigenza di evitare iniziative unilaterali dei singoli Stati che rischierebbero di essere considerate limitative dei principi del mercato unico.
Per questo motivo ho condiviso la richiesta, portata avanti da Confindustria, di non chiudere le fabbriche per legge.
Non tutti i contesti sono uguali e fare un discorso generalizzato – nell’ottica delle aziende – è impossibile. Solo il singolo imprenditore possiede tutti gli elementi per prendere una decisione, con tutte le conseguenze che da essa derivano. C’è chi ha scelto di chiudere e chi, invece, di andare avanti.
Potenziare gli ammortizzatori sociali, estendere l'utilizzo della cassa integrazione in deroga e del fondo di integrazione salariale, erogare nuova liquidità per le imprese – a partire da una moratoria dei crediti da parte del sistema bancario – sono oggi strumenti necessari per mettere le imprese nella condizione di poter continuare le proprie attività, ma sono solo alcuni dei punti di partenza.
Per cercare di rendere questo difficile momento un’opportunità di rilancio complessiva del sistema, dobbiamo attivare fin da subito misure idonee, ma allo stesso tempo guardare oltre, usando la bussola dello sviluppo sostenibile. Proprio in questo momento, fatto di ritmi produttivi forzatamente rallentati o interrotti, abbiamo l’occasione unica per riflettere a fondo su ciò che ci attende una volta superata la crisi. Il conteso globale in cui operiamo come «sistema Paese» ci chiama alla responsabilità collegiale e all’adozione di modelli virtuosi. E questo grazie anche all’indispensabile contributo delle nostre aziende, gli anelli di quelle catene di valore di cui l’Italia è così ricca e che sono capaci di generare un benessere condiviso, nella consapevolezza che il lavoro è il pilastro delle famiglie e della società.
Il nostro orizzonte non deve quindi essere solo quello del 2030, e dei 17 obbiettivi di sviluppo sostenibile concordati dall’ONU. Guardiamo oggi, nella difficoltà, più avanti. Al 2050, per esempio: l’anno in cui il nostro continente dovrà essere il primo al mondo a impatto zero.
Proprio l’Europa ha tracciato la via dello sviluppo con il Green New Deal, che rappresenterà – nei fatti – la quinta rivoluzione industriale. La sfida non è semplice: si tratta di rivedere in modo profondo l’intero paradigma industriale italiano, per continuare a creare valore da condividere all’interno dei territori e della comunità, reindirizzandolo verso un modello allineato ai principi di sostenibilità indicatici dall’UE, solidi punti di riferimento anche in questi giorni difficili.
Ne sono certo: l’industria italiana saprà raccogliere questa sfida, integrando nei piani strategici le azioni che ci porteranno alla progressiva decarbonizzazione. Lo faremo almeno fino a quel traguardo fissato nel 2050. Ecco perché il nostro futuro va oltre l’emergenza di oggi, e ci deve spingere – anche se può sembrare difficile – a guardare con ottimismo alle sfide del domani.
Giuseppe Pasini è Presidente associazione industriale bresciana.