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16/03/2020 Donato Masciandaro

Coronavirus e banche centrali, due passi falsi

La riduzione di cinquanta punti base attuati dalla FED attraverso un comunicato di quattro righe e le parole fuori luogo di Christine Lagarde durante una recente conferenza stampa denunciano una gestione della comunicazione di FED e BCE non all’altezza di questa situazione di crisi

La politica monetaria moderna si basa sui fatti e sulle parole. Nell’affrontare l’emergere del rischio macroeconomico da coronavirus, la FED ha sbagliato nei fatti, la BCE nelle parole. Vediamo perché.

In termini generali, il coronavirus appartiene alla famiglia macroeconomica degli eventi rari: in quanto tale, i suoi effetti sulla dinamica delle scelte di famiglie, imprese e mercati finanziari possono essere rilevanti e al contempo imprevedibili, sia nelle entità sia nella durata. Dunque il coronavirus è un catalizzatore di incertezza, che pone ogni banca centrale di fronte a una sequenza temporale di due diversi tipi di rischio, ciascuno corrispondente a un differente tipo di errore.

Il primo rischio è legato a un possibile errore di valutazione in merito alla domanda: quali saranno gli effetti del coronavirus sull’economia del Paese – o dell’area geografica, pensando alla BCE – della cui politica monetaria è responsabile la banca centrale? L’atteggiamento del banchiere centrale può essere di due tipi, distinguendo tra colombe – amanti delle politiche interventiste, anche a costo di creare eccessi di liquidità – e falchi – ostili all’interventismo come al lassismo monetario.

Le colombe vorrebbero un approccio preventivo: devo cercare di anticipare le conseguenze negative sulla crescita economica e sull’inflazione dell’evento raro, per cercare di neutralizzarle il più possibile. L’approccio preventivo non piace ai falchi: data l’incertezza su quello che il coronavirus potrebbe davvero rappresentare per il sistema economico, la prevenzione può assomigliare molto a un tirare a indovinare. Più c’è incertezza, più si rischia, parafrasando Friedman, di combattere la guerra sbagliata. Meglio allora assumere un approccio curativo, sostengono i falchi: attendiamo di vedere i dati sul prodotto interno e l’inflazione, poi passiamo a valutare cosa va fatto. C’è poi una ulteriore complicazione: scelta la strategia di intervento, c’è il rischio di prendere una decisione sbagliata, che a sua volta dipende dai tre diversi modi che una banca centrale ha di ragionare.

Il primo ragionamento è quello dell’analisi dei costi e benefici economici e pubblici di medio periodo, che è l’orizzonte temporale proprio di un’istituzione pubblica e indipendente. Ma c’è anche un altro ragionamento: poiché le banche centrali sono delle tecnocrazie, esiste anche l’analisi dei costi e dei benefici politici, se i banchieri centrali pensano come burocrati interessati principalmente al potere e al prestigio della propria macchina amministrativa. Il burocrate ha un orizzonte più specifico e a breve termine di quello istituzionale prima descritto. Infine c’è il possibile ruolo che può giocare la psicologia; il movente psicologico può essere infatti un potente motore delle decisioni. Quando la psicologia diventa il fattore rilevante, l’orizzonte temporale delle decisioni si accorcia ulteriormente. Anche il banchiere centrale può diventare miope e irrazionale, se quello che conta diventa solo la percezione dei possibili effetti di quello che fa in termini di carriera personale o reputazione. Tenere conto di tutti e tre i possibili moventi – economico, politico e psicologico – ci può aiutare a comprendere le scelte finora compiute dalle banche centrali più influenti al mondo: la FED e la BCE.

La FED ha attuato una politica monetaria a sorpresa sotto due punti di vista, che riguardano rispettivamente le dimensioni della riduzione e la sua tempistica. Per quel che concerne l’ammontare della caduta del tasso di riferimento, dal 2000 a oggi una riduzione di almeno cinquanta punti base è avvenuta solo undici volte, di cui quattro volte nel periodo in cui la FED ha dovuto affrontare la crisi finanziaria causata dallo scoppio della cosiddetta bolla dot.com nel 2001, e cinque volte per fronteggiare la grande crisi finanziaria del 2008, anch’essa innescata dalla scoppio di una bolla, quella immobiliare; poi una simile riduzione è avvenuta una volta nel 2002 e una nel 2007. Inoltre, cinquanta punti base di riduzione non si vedevano dall’ottobre del 2008, oltre undici anni fa. Anche la tempistica – una comunicazione non calendarizzata rispetto a quelle corrispondenti alle riunione del consiglio della FED – è stata assolutamente non convenzionale. L’effetto sorpresa può essere un’arma per le banche centrali, purché la sorpresa venga spiegata in modo credibile. Niente di tutto questo. Una decisione così importante come una riduzione improvvisa e rilevante dei tassi di cinquanta punti è stata annunciata con un comunicato di quattro righe, privo di alcuna motivazione, citando il coronavirus. Eppure tutti sappiamo che l’effetto macroeconomico dell’epidemia – su ciascuna economia – è tutt’altro che scontato. Sappiamo che un evento improvviso può distorcere sia le filiere produttive sia le scelte di chi consuma e risparmia; come pure sappiamo che il canale principale che porta dalle scelte di politica monetaria alle decisioni di famiglie, imprese e mercati è quello delle aspettative, il cui funzionamento, come ha dimostrato la prima reazione di Wall Street, è tutto meno che scontato. Chi semina opacità non si può meravigliare. C’era però l’elenco dei membri del consiglio della FED che hanno votato a favore: tutti. Perché tutti sanno che nessuno si lamenterà; anzi, tanti applaudiranno, a partire dalla Casa Bianca, al di là dei soliti brontolii – di facciata e strategici – del presidente Trump. Questo per ora alla FED può bastare.

La settimana successiva è stata invece la BCE a muoversi, anch’essa con una politica monetaria espansiva. Nelle scelte fatte, la BCE non ha ripetuto l’errore fatto dalla FED di attuare una politica monetaria basata sul mix tra sorpresa e ambiguità. Non c’è stata alcuna sorpresa: le scelte sulla liquidità e sugli annunci vincolati, appaiono sostanzialmente coerenti con la regola di condotta che ha finora caratterizzato la BCE, ma tarata sull’eccezionalità del momento. L’effetto coronavirus è stato definito come un evento rilevante, negativo, ma che al momento non può essere considerato permanente. Inoltre, l’effetto incertezza richiede un ruolo prioritario delle politiche fiscali. Purtroppo la presidente Lagarde non è stata in grado, durante la conferenza stampa di giovedì 12 marzo, di pronunciare parole all’altezza della straordinarietà della fase congiunturale. L’episodio ha portato alla mente quello che accadde – ovviamente in un contesto e con effetti completamente diversi – nel marzo 2018, quando mercati sempre pronti a scommettere sull’inatteso, vollero scambiare la semplice eliminazione di una frase da un comunicato stampa con l’annuncio di un cambio di rotta nella politica della BCE, affossando il tasso di cambio dell’euro contro dollaro. L’inopportuna comunicazione della presidente ha fatto passare sotto silenzio le decisioni della BCE. La banca centrale è stata danneggiata da un comportamento personale, che può avere ragioni politiche o psicologiche. Quello che conta è chiedersi se le procedure di comunicazione delle banche centrali siano al passo dei tempi. Per esempio, è opportuno continuare a farla gestire in diretta al suo presidente, quando quest’ultimo non ha le competenze tecniche necessarie, come è il caso di Christine Lagarde, ma anche di Jerome Powell? Insomma, entrambe le banche centrali hanno compiuto passi falsi, ancorché diversi. Avranno capito la lezione?  

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.

 

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