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10/01/2020 Gianmarco Ottaviano

Brexit 2.0: i nodi vengono al pettine

Con il netto successo di Boris Johnson alle recenti elezioni britanniche si è fatta finalmente chiarezza sulla volontà del popolo, su chi comanda in democrazia e su che tipo di Brexit ci possiamo aspettare? Probabilmente no.

È davvero cambiato qualcosa per la Brexit dopo il trionfo di Boris Johnson alle recenti elezioni parlamentari britanniche? Sembra proprio di sì, ma non per le ragioni che molti pensano, e cioè che si è fatta finalmente chiarezza sulla volontà del popolo, su chi comanda in democrazia e su che tipo di Brexit ci possiamo aspettare.

I conservatori di Boris Johnson hanno vinto le elezioni, ottenendo una maggioranza di 80 seggi (la loro maggioranza più grande dal 1987) grazie al 43,6 per cento dei voti (la percentuale più alta di qualsiasi partito dal 1979). Con una tale maggioranza Johnson non dovrà più duellare come in passato con un parlamento in larga parte ostile e la Brexit si potrà fare nella sua versione dura e pura. Il problema è che la «versione di Johnson» della Brexit resta avvolta nelle nebbie del solito mantra conservatore «Brexit significa Brexit» (Brexit means Brexit): le questioni sul tappeto sono sempre le stesse, le soluzioni concrete continuano a latitare.

In particolare, resta invariata l’annosa questione, commerciale e politica, dell’Irlanda del Nord. Gli irlandesi non vogliono il ritorno di un confine fisico tra le due Irlande perché temono di mettere a rischio l’Accordo del venerdì santo (Good Friday Agreement). Con questo accordo, di cui sono garanti gli Stati Uniti, nel 1998 si pose fine a decenni di guerra civile strisciante tra i fautori dell’annessione dei territori nordirlandesi alla Repubblica d’Irlanda e i sostenitori della lealtà al Regno Unito. Per questo motivo l’UE ha sempre chiesto con gli irlandesi che il confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord resti invisibile (no hard border) anche dopo la Brexit. Il cortocircuito è che questa richiesta, se soddisfatta, impedirebbe di fatto al Regno Unito di perseguire accordi di commercio internazionale in piena autonomia, restando di fatto uno «stato vassallo» dell’Unione in tema di politica commerciale contro lo spirito stesso della Brexit.

Un semplice esempio può far capire di che cosa si tratta. Pensiamo al ventilato accordo di libero scambio tra Regno Unito e Stati Uniti. Senza un confine con efficaci controlli doganali tra le due Irlande, tale accordo permetterebbe alle merci americane di entrare senza dazi in Irlanda del Nord, da lì nella Repubblica d’Irlanda e quindi nel mercato unico europeo. Questo potrebbe avvenire anche in assenza di un accordo parallelo di libero scambio tra Stati Uniti, origine delle merci, e Unione Europea, loro destinazione. Inoltre, aspetto taciuto dal governo Johnson, lo stesso potrebbe accadere in direzione opposta alle merci europee, che a loro volta potrebbero entrare senza dazi nel mercato americano attraverso l’Irlanda del Nord a dispetto dell’amico Donald Trump. 

L’idea ottimistica di Johnson è che la questione irlandese rappresenta un problema solo transitorio perché si troverà presto una qualche ingegnosa soluzione tecnologica (per ora inesistente) che permetterà di effettuare controlli doganali virtuali senza la necessità di un confine fisico. In attesa che la tecnologia faccia la sua parte, la dogana potrebbe essere messa temporaneamente tra le due isole di Irlanda e la Gran Bretagna, sempre che i lealisti di Belfast non protestino troppo per essere stati abbandonati dalla loro sovrana in «territorio nemico». Con buona pace della chiarezza su che tipo di Brexit ci possiamo aspettare.

Pazienza per la Brexit, ma il voto ha almeno fatto finalmente chiarezza sulla volontà del popolo e su chi comanda in democrazia. Non proprio. Queste elezioni hanno messo a nudo la debolezza istituzionale di quella che si considera la più antica democrazia del mondo. Come osservato dal filosofo britannico Anthony Grayling, nelle ultime elezioni i candidati favorevoli a rimanere nell’UE hanno conquistato 16,5 milioni di voti, mentre i candidati favorevoli alla Brexit hanno ricevuto 14,8 milioni di voti. In altre parole, il sistema elettorale britannico di tipo maggioritario ha fatto sì che paradossalmente quasi due milioni di voti in meno abbiano generato una maggioranza schiacciante di seggi a favore della Brexit. Tre sono le implicazioni politiche. La prima è che il sistema elettorale della più antica democrazia del mondo non sembra poi così democratico. La seconda è che nel Regno Unito non esiste una maggioranza popolare a favore della Brexit. La terza è che la prima implicazione ha reso la seconda irrilevante. Per esempio, per ogni seggio vinto i conservatori pro-Brexit hanno dovuto conquistare poco meno di 40.000 voti, mentre i Democratici liberali (LibDem) pro-EU ne hanno dovuti conquistare quasi dieci volte di più.   

La ragione del paradosso è che, con il sistema maggioritario britannico, i seggi parlamentari vengono assegnati ai candidati che ottengono il maggior numero di voti nel proprio distretto elettorale (anziché in proporzione al voto nazionale totale) e i distretti pro-Brexit dei piccoli centri tendono a essere meno popolosi di quelli pro-EU delle grandi città. Un effetto trainante l’hanno avuto le regioni del nord dell’Inghilterra e delle Midlands, regioni di antiche tradizioni minerarie e industriali, che per decenni prima delle ultime elezioni non avevano mai votato per il partito conservatore. La combinazione di sentimenti pro-Brexit e della percezione dell’assenza di una leadership credibile in campo laburista ha permesso a Johnson di ottenere quello che nessun candidato conservatore era riuscito a ottenere in quelle regioni a memoria d’uomo.

Tuttavia, non tutti questi territori sono diventati conservatori. La maggioranza del voto per Johnson si è infatti concentrato nei piccoli centri collocati ai margini di città di più grandi dimensioni e di maggior successo. Si tratta di un nuovo tipo di elettore conservatore: colletti blu che abitano in aree più povere dei bacini da cui il partito di Johnson trae tradizionalmente il proprio sostegno. Prima di queste elezioni, il salario medio orario di un’area rappresentata da un parlamentare conservatore era di circa 18 euro e solo 17 seggi conservatori venivano dalla quarta parte più povera dell’Inghilterra. Nel nuovo parlamento il salario medio orario di un seggio conservatore è sceso a circa 16 euro e ben 35 seggi provengono dalla quarta parte più povera dell’Inghilterra. Oltre alla dimensione geografica, ce n’è anche una demografica: il partito conservatore ha ottenuto il 57 per cento e il 67 per cento dei voti tra gli elettori con rispettivamente più di sessanta e settanta anni di età. Ma la dimensione demografica non si sovrappone perfettamente con quella geografica. L’elettore conservatore è diventato un po’ più giovane dal momento che l’età alla quale un elettore cessa di votare con maggiore probabilità per i laburisti e comincia a sostenere con maggiore probabilità i conservatori è passata da 47 anni nel 2017 a 39 nel 2019. La divisione politica è sempre più netta tra piccoli e grandi centri, unita al fatto che i conservatori devono rispondere anche a un nuovo tipo di elettore diverso da quello con cui sono abituati a interagire. Come riusciranno ad accontentare simultaneamente nuovi e vecchi elettori è un elemento di incertezza senza precedenti.

Come senza precedenti è, infine, la questione scozzese. A dicembre l’indipendentista e pro-EU Partito nazionale scozzese (SNP) ha ottenuto il maggior numero di voti, quasi il doppio sia dei conservatori che dei laburisti, attestandosi al 45 per cento delle preferenze espresse con un guadagno di circa 8 per cento rispetto alle precedenti elezioni del 2017. Grazie al sistema maggioritario, l’SNP ha conquistato 48 dei 59 seggi scozzesi, 13 in più del 2017. Inoltre, circa il 10 per cento dei voti e 4 seggi sono andati all’altro partito pro-EU dei LibDem. Il risultato è che circa l’80 per cento dei parlamentari scozzesi sono indipendentisti e quasi il 90 per cento è a favore della permanenza nell’Unione Europea. Diversamente da quanto vale per l’intero Regno Unito, in Scozia l’esito maggioritario amplifica invece che contraddire il voto popolare. La prossima mossa dei parlamentari scozzesi potrebbe quindi essere la richiesta di un referendum per l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito in vista di una possibile successiva adesione all’UE. Un ennesimo fattore di incertezza.   

La saga della Brexit non è finita, sta solo entrando in una nuova fase.      

Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies; l’articolo estende l’analisi di un suo contributo apparso recentemente sul Sole 24 Ore

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