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04/12/2019 Donato Masciandaro

Lagarde, un gufo saggio tra falchi e colombe

La nuova presidentessa della Banca centrale europea ha dichiarato che il suo obiettivo è quello di essere un gufo saggio tra falchi e colombe. Non sarà semplice, visto che i prossimi mesi vedranno accentuarsi le contrapposizioni sulla rotta che la Bce dovrà percorrere. A partire dagli interrogativi legati alla definizione dell’obiettivo della politica monetaria.

Il passaggio di consegne da Mario Draghi alla nuova presidentessa Christine Lagarde è stato contrassegnato da tre aspetti: due risultati e un interrogativo. I due risultati riguardano la capacità di mettere in atto politiche monetarie non convenzionali e l’affidabilità dell’assetto istituzionale della Banca centrale. L’interrogativo riguarda il futuro.

 Il primo risultato può essere apprezzato ricordando che la presidenza Draghi è coincisa dal punto di vista macroeconomico con eventi straordinari, nel senso letterale del termine. La doppia crisi recessiva che l’Unione Europea ha patito negli anni tra il 2008 e il 2013 ha posto la Bce di fronte a una sfida nuova: evitare la stagdeflazione. Di cosa si tratta? La stagdeflazione è un mix congiunturale tossico: le scelte di famiglie, imprese e banche sono bloccate da una profonda sfiducia del futuro. La sfiducia fa innalzare l’avversione al rischio, che a sua volta innesca un effetto domino che parte dalla caduta di consumo, investimento e credito bancario e finisce nel ristagno di produzione e prezzi dei beni di consumo. Il ristagno, attraverso il meccanismo delle aspettative, auto-alimenta la sfiducia, con il rischio che si possa innescare una spirale viziosa tra stop della produzione e caduta dei prezzi. La Bce ha affrontato la sfida della stagdeflazione con un attacco a tre punte: tassi a breve nei rapporti bilaterali con le banche in territorio nullo per i prestiti e negativo per i depositi, acquisti sistematici di titoli sui mercati finanziari – anche di lunga durata e anche emessi da privati – per spingere verso il basso tutta la struttura dei rendimenti, annunci vincolanti per influenzare la caduta anche dei tassi futuri. Finora l’evidenza empirica ha dato ragione alla Bce: la politica monetaria non convenzionale ha prodotto risultati sia in termini di riduzione dei tassi a breve e a lungo termine, sia – e di conseguenza – stimolando la crescita economica e dei prezzi al consumo.

Il secondo risultato riguarda il ruolo importante che il disegno istituzionale della Bce ha avuto nel determinare l’efficacia della politica monetaria sopra descritta. È questo un punto ribadito più volte dallo stesso Draghi: la politica monetaria europea è stata credibile proprio perché coerente rispetto al mandato della Bce. Il mandato della Bce assegna un ruolo prioritario alla tutela della stabilità monetaria, pilastro su cui appoggiare anche le altre politiche economiche, in un gioco a somma positiva per la crescita economica. Tirando le somme: la nave Bce, seguendo la rotta Draghi, ha fatto superare all’Unione Europea gli scogli di Scilla e Cariddi della stagdeflazione.

Ma ora il quesito diventa: sarà la rotta Draghi valida anche con la comandante Lagarde? Una prima cartina al tornasole potrebbe essere il tema del target della politica monetaria. La presidenza di Christine Lagarde potrebbe ben iniziare se la Bce si interrogasse in modo esplicito, completo e trasparente sulla strategia della politica monetaria. A partire dalla definizione del suo obiettivo. Oggi – come sopra ricordato – l’obiettivo principale della Bce è quello della stabilità monetaria, intesa come una variazione dei prezzi al consumo – nell’area euro nel suo complesso e in un orizzonte di medio periodo – che sia minore, ma vicina, al 2 percento.

La priorità della stabilità monetaria può essere considerata fuori discussione, visto che, essendo stata sancita nel 1992 all’interno Trattato dell’Unione, occorrerebbe l’unanimità dei Paesi membri per modificarla. La Bce potrebbe invece ridiscutere la definizione operativa dell’obiettivo macroeconomico. Un cambiamento del target operativo è peraltro già avvenuto in passato. Infatti, fino al 2003, la Bce definiva il suo target semplicemente come una variazione dei prezzi al consumo minore del due percento, senza ulteriori specificazioni. La Bce preferì poi aggiungere che il 2 percento doveva però essere vicino, in modo da segnalare di considerare come sgraditi, guardando l’andamento dei prezzi al consumo, sia gli scostamenti verso l’alto dall’obiettivo – rischio inflazione – che quelli verso il basso – rischio disinflazione, o peggio ancora deflazione.

Oggi la riconsiderazione dell’obiettivo della Bce è divenuta necessaria alla luce del fatto che una variazione dei prezzi al consumo del due percento sembra un target non più raggiungibile come in passato – e non solo nell’area euro. In tema di target della politica monetaria – e rimanendo nel dibattito che continua a considerare coincidente la stabilità monetaria con la dinamica dei prezzi al consumo – le posizioni che si confrontano sono almeno tre. La prima posizione è quella che possiamo definire conservatrice, identificabile nella posizione ufficiale finora tenuta dalle maggiori banche centrali dei Paesi avanzati: il 2 percento non si tocca. La posizione conservatrice si può giustificare con due ordini di argomenti. In primo luogo, non è detto che l’abbassamento del tasso naturale sia strutturale; potrebbe essere un fenomeno transitorio. In secondo luogo, modificare il target inflazionistico significa incidere sul meccanismo delle aspettative aprendo una sorta di vaso di Pandora: non è detto infatti che le reazioni di famiglie, imprese e banche siano prevedibili.

Una seconda posizione è quella che possiamo chiamare «rialzista», ovvero delle colombe: il tasso di inflazione ottimale deve essere innalzato. Il ragionamento è il seguente: il tasso di inflazione ottimale deve essere correlato all’andamento del tasso di interesse naturale. Il tasso naturale è il rendimento reale del capitale in un orizzonte di lungo periodo; si assume che in equilibrio il tasso nominale deve essere uguale alla somma del tasso naturale con il tasso di inflazione ottimale. Possiamo così chiamare il corrispondente tasso nominale come tasso neutrale, visto che a esso corrisponde una politica monetaria che non deve essere né espansiva né recessiva.

Ora, il tasso di inflazione ottimale è stato finora considerato essere il 2 percento quando le stime del tasso naturale erano anch’esse al 2 percento. Dunque, il corrispondente tasso nominale neutrale finivano per essere uguale al 4 percento. Data una simile fisionomia dei tassi di interesse, in caso di recessione le banche centrali avevano un spazio di 400 punti base per ribassare i tassi prima di raggiungere il pavimento dello 0.

Oggi tutte le stime indicano un tasso naturale sotto l’1 percento, sovente vicino allo 0. Da questa evidenza empirica le colombe arrivano alla seguente conclusione: per ridare alle banche centrali lo stesso spazio di manovra utilizzabile prima della grande crisi occorrerebbe innalzare il target inflazionistico almeno al 4 percento. Inoltre un tasso di inflazione più alto renderebbe più credibile la volontà delle banche centrali di mettere in atto politiche monetarie ultra-espansive. Una maggiore credibilità delle banche centrali potrebbe aumentare la capacità della politica monetaria di colpire le aspettative nella giusta direzione. Ricordiamo infatti che oggi viene ritenuta valida la seguente catena di trasmissione: condizione necessaria – anche se non sufficiente – per l’efficacia della politica monetaria è che le aspettative incorporino azioni e parole di una banca centrale ritenuta credibile.

Sullo stesso meccanismo sono basate altre proposte delle colombe, riassumibili nella prospettiva di definire il target della stabilità monetaria non in termini di variazione dei prezzi al consumo, ma guardando al livello di tali prezzi. La differenza è sostanziale. Se il target è espresso in termini di livello dei prezzi, ogni volta che si va sotto il target prefissato, per tornare sul sentiero di crescita dell’inflazione che si è abbandonato occorre che il tasso di inflazione sia maggiore di quello passato.

Esempio numerico, con arrotondamenti: immaginiamo un Paese che nell’anno 0 ha un livello dei prezzi pari a 100, e vuol far crescere i prezzi al consumo al 2 percento annuo; questo significa che dopo 4 anni il livello dei prezzi dovrà essere uguale a 108. Cosa accade se il Paese viene colpito da uno shock disinflazionistico, per cui per tre anni il livello dei prezzi rimane inchiodato a 100? L’obiettivo della Banca centrale per il quarto anno sarà una crescita dei prezzi sempre al 2 percento se la sua strategia è fissata in termini di tasso di inflazione. Se invece ragiona in termini di livello dei prezzi, per recuperare il potere di acquisto perduto, l’obiettivo in termini di tasso di inflazione dovrà essere dell’8 percento. Concretamente: utilizzare un target in termini di livello dei prezzi significa che se la Bce non raggiunge il 2 percento per un certo lasso di tempo, poi deve avere un obiettivo di inflazione maggiore del 2 cento.

La terza posizione è quella «ribassista» dei falchi. I falchi concordano con le colombe sull’assunzione che il tasso ottimale di inflazione deve essere correlato al tasso di interesse naturale. Ma è la conseguenza che risulta diametralmente opposta. Se il tasso naturale si è strutturalmente abbassato, bisogna semplicemente prenderne atto, e ridurre di conseguenza ogni velleità di raggiungere il 2 percento, «come ai vecchi tempi». Inoltre i falchi avanzano la possibilità che l’abbassamento del tasso naturale sia «colpa» di oltre un decennio di politiche monetarie espansive. L’espansione monetaria che non si interrompe manda un messaggio implicito che il ristagno economico continua, per cui l’effetto sulle aspettative è l’opposto di quello auspicato dalle colombe: le famiglie non consumano, le imprese non investono, le banche non prestano.

Di riflesso – continuano i falchi – la scelta di innalzare il target inflazionistico, o di utilizzare un obiettivo in termini di livello dei prezzi, riduce la credibilità della Banca centrale; altro che aumentarla, come sostengono le colombe. Sotto questo aspetto, i falchi sorridono alla prospettiva avanzata dalle colombe di innalzare il target inflazionistico: la paragonano alla pretesa di un saltatore in alto che, incapace di raggiungere una asticella a due metri, annunzia un obiettivo ancora più ambizioso. Chi gli crede?

Tra conservatori, rialzisti e ribassisti, cosa dovrà fare Christine Lagarde? Semplicemente, ridiscutere il target. Magari per far emergere posizioni intermedie. Per esempio, ridefinire l’obiettivo come la variazione del 2 percento, eliminando il «sotto» e il «vicino». Se l’obiettivo inflazionistico deve essere simmetrico, perché non essere chiari e semplici? Oppure modificare il target, esprimendo un corridoio di valori, invece di un numero. Se il target inflazionistico fosse compreso tra il 2 e il 3 percento, la maggiore flessibilità della regola monetaria aumenterebbe la capacità della Bce di affrontare la realtà di un sistema macroeconomico in cui l’andamento di tutte le variabili – incluso il tasso naturale – appare caratterizzato da grande incertezza e aleatorietà. Oppure, la Bce potrebbe confermare il target, giustificando tale scelta.

Sarebbe invece un errore far finta di niente. Il tema esiste. Non solo: dopo l’obiettivo, occorrerà anche interrogarsi sugli strumenti. Un fatto è comunque certo: non sarà semplice per la Lagarde essere – come lei ha dichiarato – un gufo saggio tra i falchi e le colombe.

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.

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