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03/12/2019 Cecilia Attanasio Ghezzi

Il lato oscuro di Pechino

Le rivelazioni del New York Times hanno portato alla luce dettagli sulle politiche repressive del Governo centrale sulla minoranza musulmana e turcofona a ovest del Paese

Quando finisce un semestre, in genere gli studenti cinesi tornano nelle loro regioni di origine per stare un po’ con la famiglia. Ma da qualche anno, succede che chi torna nella regione dell’estremo ovest cinese, lo Xinjiang, si trova a fronteggiare la scomparsa di amici, parenti e vicini di casa. «Sono in una scuola di formazione istituita dal governo», devono spiegare polizia e funzionari di Partito che sottolineano anche che gli internati non possono uscire pur non essendo dei criminali. Devono infine premurarsi di aggiungere che «sono sicuro che li sosterrai, perché è per il loro bene. E anche per il tuo». Queste raccomandazioni sono contenute in una direttiva del 2017, parte delle oltre 400 pagine di documenti riservati, usciti non si sa come dai gangli della burocrazia cinese e pubblicati dal New York Times (1) che raccontano come il governo cinese ha organizzato la detenzione di massa e la repressione della minoranza musulmana e turcofona locale: gli uiguri.

A 3200 chilometri da Pechino e da sempre corridoio per le rotte che attraversano l’Asia centrale, lo Xinjiang è stato annesso militarmente alla Repubblica popolare nel 1949. All’epoca gli han, l’etnia maggioritaria in Cina, non costituivano neanche il 7 per cento della popolazione. Oggi sono più del 40 per cento e occupano tutti i posti chiave delle amministrazioni locali e degli impieghi più redditizi. L’immigrazione han viene favorita dal governo con incentivi fiscali e sussidi per i matrimoni inter-etnici mentre gli uiguri da sempre denunciano che le politiche di Pechino sono volte a cancellare le loro radici culturali. Così, negli anni, la resistenza culturale si era trasformata in guerriglia. Dai primi grandi scontri tra han e uiguri del luglio del 2009 (197 morti e oltre 1600 feriti) al 2014, si sono contate più di mille vittime. Poi più nulla, e oggi sappiamo con certezza perché: è iniziata la repressione di Stato. Se fino al mese scorso potevamo basarci solo sulle testimonianze degli esuli, su alcune inchieste giornalistiche e sulle immagini satellitari, il materiale raccolto dal New York Times ne costituisce la prima, inconfutabile, prova.

Si tratta di 24 documenti, alcuni dei quali in duplice copia, che contano quasi 200 pagine di discorsi riservati fatti dal presidente Xi Jinping o altri leader locali, oltre 150 pagine di direttive e rapporti sulla sorveglianza e il controllo della popolazione uigura nello Xinjiang e 44 pagine di materiale su indagini interne riguardanti funzionari locali. Per quanto riguarda il Partito comunista cinese, siamo di fronte a una delle fughe di notizie più significative di sempre. E non rimane un caso isolato. Nemmeno dieci giorni più tardi, il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij) entra in possesso – attraverso la rete degli uiguri in esilio – e pubblica altri sei documenti. Un totale di 23 pagine (2) che squarciano definitivamente dubbi e silenzi su quella che alcuni ritengono essere la più grande detenzione di una minoranza religiosa dai tempi della Seconda guerra mondiale (3). Uno di questi ultimi documenti, classificato come jimi ovvero «segreto» (4), è addirittura avallato da Zhu Hailun, vicesegretario della sezione del Partito dello Xinjiang e capo della sicurezza della regione.

Così apprendiamo come nell’aprile del 2014 il presidente Xi Jinping, in una serie di discorsi tenuti in privato ai funzionari locali, chiede una lotta coordinata e radicale che «non mostri alcuna pietà» (di qui il titolo del lavoro del NYT) «contro il terrorismo, l’infiltrazione e il separatismo». Il vertice dello Stato più popoloso del mondo, paragona l’estremismo islamico al contagio di un virus e sottolinea che «l’impatto psicologico del pensiero religioso estremista sulle persone non deve mai essere sottovalutato». Dai documenti risulta anche come la repressione abbia incontrato dubbi e resistenze da parte dei alcuni funzionari locali e come questi siano stati incriminati ed espulsi. Solo nel 2017, il Partito avrebbe avviato oltre 12.000 indagini sui suoi membri nello Xinjiang per infrazioni riguardanti la «lotta contro il separatismo».

Un ulteriore livello di intensità nella repressione si è raggiunto ad agosto 2016, quando il falco Chen Quanguo, precedentemente di stanza in Tibet, è stato trasferito nella regione. Il suo ordine «prendete tutti quelli che meritano di essere presi» appare a più riprese nei documenti in questione. Nella remota contea di Yarkand, dove il 96 per cento della popolazione è ancora uiguro, la maggioranza dei nuclei famigliari conta una o più persone internate. E si tratta soprattutto di maschi adulti, con un’età compresa tra i 30 e i 59 anni. In uno dei documenti si poi fa riferimento a una lista di 1535 persone dello Xinjiang «che hanno ottenuto la nazionalità straniera ma hanno richiesto un visto per la Cina» e che devono essere trovate e indagate (5). Un ordine che apparentemente ignora qualsiasi ricaduta diplomatica per eventuali detenzioni extra-giudiziarie di cittadini con passaporti stranieri.

Ma l’aspetto più inquietante che risulta dalla lettura di questi documenti è apprendere come nella regione big data e intelligenza artificiale siano utilizzati, come mai prima d’oggi, per rastrellare intere categorie di residenti. Attraverso un algoritmo che va sotto il nome di Piattaforma per le operazioni congiunte e integrate, 40.000 utilizzatori di un’app per la condivisione di file sono stati segnalati per essere indagati e arrestati. Secondo quanto riportato da uno dei documenti pubblicati dall’Icij (6), in una sola settimana del giugno 2017, la Piattaforma ha identificato quasi 25.000 sospetti di cui oltre 15.000 sono stati internati nei campi di rieducazione, più di 700 sono stati messi in prigione e oltre 2000 agli arresti domiciliari. Adrian Zenz, un ricercatore che si occupa proprio delle minoranze etniche in Cina, stima che gli uiguri detenuti dalla primavera 2017 abbiano raggiunto un’incredibile cifra compresa tra i 900.000 e 1,8 milioni (7).

Veniamo poi a sapere che chi entra nei centri di rieducazione deve restarci per almeno un anno e può uscire solo in casi eccezionali. Deve essere controllato in ogni suo movimento «per prevenirne la fuga». All’interno dei centri, i cellulari non sono ammessi per «evitare collusioni tra chi è dentro e chi è fuori», si suggerisce di accordare una chiamata a settimana e una videochiamata al mese con i familiari dopo la quale i soggetti andranno monitorati attentamente per evitare che insorgano «problemi ideologici o cambiamenti emotivi». I detenuti sono poi valutati settimanalmente sul cinese mandarino, di fatto l’unica lingua ammessa, l’ideologia e la disciplina e il loro punteggio si concretizza in premi e punizioni. Chi resiste al lavaggio del cervello deve essere scelto per una «rieducazione aggressiva», un termine che suggerisce come le torture evocate negli anni da alcuni testimoni non siano poi da escludere categoricamente. Chi esce è poi obbligato a lavorare, spesso in fabbriche da cui non è consentito uscire, per un tempo maggiore e una paga inferiore alla media nazionale.

Il governo ha definito i documenti «pura immaginazione e fake news» e, nello stesso comunicato ha rivendicato che dal 2016, ovvero da quando si sono prese non meglio specificate «severe misure» «che nulla hanno a che vedere con l’eliminazione di gruppi religiosi», non c’è stato nella regione un singolo atto terroristico. Il punto è che, secondo diversi esperti, si tratta di documenti governativi originali e che il solo fatto che siano arrivati nelle redazioni di testate internazionali mina, come mai prima di oggi, l’obbedienza al Partito e, dunque, al suo segretario generale Xi Jinping. Chi li ha fatti uscire? E perché? Le domande più interessanti per capire il complesso momento politico che sta attraversando la Repubblica popolare cinese restano inevase. Quello che è certo è che la pace sociale scricchiola. E non solo a Hong Kong.

 

(1)               https://www.nytimes.com/interactive/2019/11/16/world/asia/china-xinjiang-documents.html

(2)               https://www.icij.org/investigations/china-cables/read-the-china-cables-documents/

(3)               https://www.icij.org/investigations/china-cables/exposed-chinas-operating-manuals-for-mass-internment-and-arrest-by-algorithm/

(4)               https://www.documentcloud.org/documents/6558509-China-Cables-Telegram-Chinese.html

(5)               https://www.documentcloud.org/documents/6558501-China-Cables-IJOP-Daily-Bulletin-2-Chinese.html

(6)               https://www.documentcloud.org/documents/6558507-China-Cables-IJOP-Daily-Bulletin-20-Chinese.html 

(7)               https://www.nytimes.com/2019/11/24/opinion/china-xinjiang-files.html

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