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22/10/2019 Paola Dubini

Quale PIL per la cultura

La ricchezza generata dal settore dipende non solo dai risultati economici diretti, ma anche e soprattutto dalla ricchezza attivata intorno, insieme e a partire dal patrimonio culturale.

Lo scorso 7 ottobre sono stati resi pubblici i risultati di due ricerche che affrontano il tema del rapporto fra patrimonio culturale e ricchezza generata: la seconda edizione del Cultural and Creative cities monitor, pubblicato dal Joint Research Centre (JRC) dell’UE, che confronta 190 città in 30 paesi europei [1], e la ricerca Boston Consulting Group sui musei autonomi nazionali, sui loro risultati e il loro impatto nei primi anni dalla loro istituzione dopo la riforma Franceschini del 2014 [2]. Il messaggio sintetico che è arrivato all’opinione pubblica dai due studi è che i musei statali producono l’1,6% di PIL. Qualche settimana prima, a Matera, Confindustria ha organizzato un convegno dal titolo: «Cultura, comunità, impresa: i valori dell’Europa» [3]. Tre appuntamenti diversi, tutti importanti e autorevoli, oggetti di indagine diversi, metodi e livello di disclosure molto differenti, ma con alcuni punti in comune sui quali riflettere:

  • appare sdoganata l’idea che il patrimonio culturale sia portatore di ricchezza anche economica. Le organizzazioni culturali contribuiscono, come tutti gli altri soggetti, al PIL;
  • le organizzazioni culturali fanno proprio il linguaggio dell’economia; 
  • la possibilità che questa ricchezza anche economica si crei dipende non solo dai risultati economici diretti, ma anche e soprattutto dalla ricchezza attivata intorno, insieme e a partire dal patrimonio culturale. La misura della ricchezza generata dalla cultura è multidimensionale;
  • è legittimo aspettarsi che, come per altri comparti, il mondo dell’economia guardi alle organizzazioni culturali come possibile area di investimento.

Sui primi due punti mi pare ci sia poco da dire; non vedo come sia possibile non guardare alle organizzazioni culturali anche come operatori economici: qualsiasi tipo di organizzazione che ambisca a durare nel tempo (che sia una famiglia o un ente no profit) opera con vincoli di risorse per raggiungere i propri obiettivi (che siano di natura economica o non economica) e concorre a produrre ricchezza nei modi che gli sono propri. La quantità e la qualità di ricchezza prodotta dipendono da tanti fattori: dall’investimento di partenza, dalle competenze a disposizione, dalla presenza di un contesto normativo favorevole, dall’attenzione dei diversi interlocutori con i quali l’organizzazione entra in contatto, dai modi in cui il valore prodotto viene redistribuito fra chi ha concorso a crearlo. La specificità, l’eccezione di cui spesso si parla quando ci si riferisce alle organizzazioni culturali, non riguarda il fatto che le organizzazioni culturali non agiscano in condizioni di vincolo di risorse, ma dal fatto che i meccanismi di creazione e distribuzione di ricchezza sono idiosincratici, path dependent e spesso non soggetti a miglioramenti di efficienza – per esempio attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie – a meno di uno snaturamento e di una consistente perdita di valore. Uno dei linguaggi della contemporaneità è quello economico (lo spread è quasi argomento da bar) e non può accadere che le organizzazioni che per vocazione costruiscono l’immaginario della contemporaneità, rendano attuale il passato e la memoria e non si confrontino con i linguaggi del loro tempo.

Molto più delicati e problematici mi sembrano gli altri due punti. La lettura della scarna presentazione sull’impatto dei musei statali mostra chiaramente che l’1,6% di PIL stimato generato dai musei è in massima parte una ricchezza che si produce attorno ai musei statali; è una ricchezza attivata dall’unicità del patrimonio e che si riverbera per lungo tempo in direzioni diverse, coinvolgendo operatori pubblici e privati, alimentandosi a sua volta dalla loro vitalità. I 32 musei autonomi, infatti, hanno generato nel 2017 222 milioni di ricavi diretti da visitatori: per arrivare all’1,6% di PIL non basta che i musei siano meta di visitatori (stranieri ricchi provenienti da paesi lontani  che soggiornano a lungo nel nostro Paese, così da aumentare l’effetto moltiplicativo). Ammesso che si conosca come si arrivi a questo numero, personalmente mi sembra ancora molto basso, sia per la capacità di autofinanziamento dei musei statali, sia per l’indotto generato. E purtroppo il modo in cui si genera questo PIL è poco sostenibile: è troppo concentrato in poche sedi, in pochi periodi dell’anno e permette una redistribuzione di ricchezza a pochi operatori. Perché la percentuale cresca – e sia riconosciuta come realistica, come fonte di orgoglio per il paese, come stimolo a investire e in primis come riconoscimento per la qualità del lavoro culturale svolto dai musei – occorre che ciascuno dei musei si confronti con il mondo della ricerca, dell’università, con la rete delle imprese di vari settori (dalla filiera del restauro al digital per la valorizzazione delle collezioni), con il mondo delle associazioni, con i settori culturali e creativi. Occorre inoltre che si creino reti formali e informali a livello territoriale con attori pubblici e privati. Il sistema di indicatori proposto da JRC a livello territoriale mi pare vada nella direzione di suggerire misure di risultato condivise. È un percorso appena avviato, molto promettente ma anche di non semplice realizzazione. Il sistema normativo a livello nazionale va in quella direzione, alcune regioni e alcuni comuni stanno sviluppando progetti e iniziative fortemente orientate alla collaborazione e allo sviluppo legato alla cultura, alcune organizzazioni culturali hanno colto la sfida e si stanno attrezzando. Mi aspetto che il mondo della cultura abbia molto da dire in termini di assetti di governo innovativi: la contrapposizione fra istituzioni e imprese culturali è stata ampiamente superata dai fatti. La scommessa è triplice:

  • come progettare assetti collaborativi equi nella ripartizione del valore condiviso fra gli attori coinvolti. I mercati della cultura, quando ci sono, sono fortemente imperfetti e si prestano a elevate rendite di posizione; inoltre, c’è ancor molto lavoro da fare per avere basi di dati organizzate e aggiornate su cui sviluppare indicatori di risultato e fondare decisioni collettive;
  • come realizzare organizzazioni culturali che aiutino i territori e il Paese a lasciarsi attraversare dalla globalizzazione senza esserne travolti. Il patto fra persone e luoghi, che era una volta dato per scontato, va ricostruito su premesse diverse. In Europa vivono 36,9 milioni di persone nate fuori dall’Europa e 20,4 milioni di persone nate in uno Stato membro diverso da quello di residenza[4]; i mecenati della cultura e i loro capitali non sono più necessariamente legati ai territori di provenienza. Sono le organizzazioni culturali gli operatori più adatti a ricreare una mediazione fra luoghi e persone sempre più mobili;
  • come rendere i territori attrattivi per chi cerca lavoro. Proprio perché il patto fra persone e luoghi si è fortemente indebolito, nessun operatore a livello territoriale ha da solo la forza di contrastare la fuga di cervelli. E non è detto che i cervelli debbano necessariamente fuggire; sarebbe opportuno che si radicassero, esplorassero, imparassero e ritornassero a casa. E una volta rientrati a casa cogliessero l’attrattività dei luoghi non solo dal punto di vista dell’offerta di lavoro, ma dal punto di vista della qualità della vita. Molti territori hanno tanto da offrire, ma fanno fatica a concentrare i propri sforzi su segmenti di pubblico specifici da attrarre (per esempio i giovani); le organizzazioni culturali (che hanno grandi fabbisogni di lavoro, ma non sono economicamente sostenibili) possono fare molto per orientare la propria offerta culturale a pubblici diversi. E anzi, la loro forza sta – potenzialmente – nella capacità di mescolare questi pubblici.

 


[1] V. Montalto, C. J. Tacao Moura, V. Alberti, F. Panella, M. Saisana, The Cultural and Creative Cities Monitor, 2019 edition, disponibile al link: https://composite-indicators.jrc.ec.europa.eu/cultural-creative-cities-monitor/cultural-creative-cities/docs-and-data.

[2] Cultura: leva strategica per la crescita del Paese, Boston Consulting Group, Roma, 7 ottobre 2019, disponibile al link: https://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1570441166209_MiBACT_Musei_Sintesi_per_evento_vDef_Invio_04ott19_AS.pdf.

[3] «Cultura, comunità, impresa: i valori dell'Europa», Confindustria e Confindustria Basilicata, Matera, 21 settembre 2019.

[4] G. Ottaviano, Geografia economica dell’Europa sovranista, Laterza, Roma-Bari, 2019.

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