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09/10/2019 Donato Masciandaro

Le pagelle di Draghi e dell’euro

Dopo otto anni Mario Draghi lascia la presidenza della Banca centrale europea. È possibile stilare una pagella sul suo operato? E, più in generale, si possono associare le performance macroeconomiche dell’Italia con la condotta della politica monetaria, prima e dopo l’introduzione dell’euro? Con prudenza, la risposta è sì. Il giudizio è ampiamente positivo, anche se gli italiani non sembrano accorgersene

Con il passaggio del timone della Banca centrale europea (Bce) dalle mani di Mario Draghi a quelle di Christine Lagarde si può provare a stilare una pagella sul rapporto tra politica monetaria, euro ed economia italiana?

Un simile esercizio è argomento che va maneggiato con molta prudenza. Infatti tra gli strumenti monetari e i relativi effetti macroeconomici non esiste un rapporto diretto. Piuttosto si ha di fronte una catena di relazioni, di cui la politica monetaria può essere uno dei primi anelli, mentre i risultati macroeconomici sono l’anello ultimo. La sfida per un banchiere centrale è capire sotto quali condizioni i movimenti del primo anello si riflettono nel modo auspicato sull’ultimo. Per quel che riguarda la Bce durante il mandato Draghi, va anche sottolineato che la relazione tra i due anelli è stata caratterizzata da eventi inediti rispetto a tutto il secondo dopoguerra – come la trappola della liquidità e il rischio deflazione – che hanno reso il lavoro del banchiere centrale europeo particolarmente arduo.

Fatte queste doverose premesse, cosa possiamo dire della relazione tra i due anelli negli ultimi otto anni, e più in generale per il periodo euro (1999-2018)? Partendo dalla politica monetaria, occorre un metro per giudicarla. A tal fine si può opportunamente modificare la cosiddetta regola di Taylor, che definisce il legame tra la banca centrale, i tassi di interesse e la stabilizzazione monetaria. La regola monetaria serve a capire quando le scelte della banca centrale sono coerenti con i propri obiettivi. Definita una regola, si comparano le scelte effettive con quelle ottimale, arrivando così a un giudizio sull’operato del banchiere centrale.

Costruita la bussola monetaria, quello che rimane da fare è sostituire nella formula i dati storici e ottenere, mese per mese, il corrispondente valore del tasso di interesse ombra, che rappresenta la scelta ottimale della banca centrale. Confrontando il tasso ombra con quello effettivamente registrato sul mercato, si possono verificare tre situazioni: il tasso effettivo può essere uguale, inferiore o superiore a quello ombra; di riflesso, la corrispondente politica monetaria può essere valutare rispettivamente come adeguata, espansiva e restrittiva, con il grado di espansione/restrizione che viene misurato da un gap monetario, vale a dire dalla differenza in punti base tra il tasso effettivo e quello ombra. Se il gap monetario è nullo, negativo o positivo la politica monetaria è rispettivamente adeguata, espansiva o restrittiva. 

Gli indicatori macroeconomici che si possono guardare sono invece essenzialmente tre: il tasso di inflazione, il tasso di crescita del prodotto interno lordo, il quoziente di equità. Mentre i primi due indici non richiedono particolari spiegazioni, il terzo indice rappresenta una traduzione semplificata del concetto macroeconomico del quoziente del sacrificio (sacrifice ratio).

Tale quoziente indica, per un dato Paese, le variazioni relative tra la crescita economica e la crescita dei prezzi. Nato nel periodo in cui per avere crescita economica occorreva pagare un prezzo in termini di inflazione – da qui la denominazione – esso può rappresentare più in generale il rapporto tra crescita economica e il prezzo che si deve pagare in termini di tassa inflazionistica. Il quoziente di equità si presta a una doppia lettura.

Da un lato, esso ci può indicare se la tutela della stabilità monetaria ha prodotto dei costi reali netti in termini di crescita economica; più il quoziente è alto, più tali costi sono bassi. Dall’altro lato, l’indice ci dice se la crescita economica è avvenuto a spesa di una redistribuzione del reddito occulta. Occorre ricordare   infatti che la tassa inflazionistica è massimamente iniqua, per almeno due ragioni. Dal punto di vista economico, essa colpisce i redditi più bassi. Dal punto di vista politico, è una tassazione che non è deliberata da alcun parlamento. Questo secondo aspetto era molto chiaro nel dibattito e nella percezione pubblica quando i prezzi al consumo correvano con una velocità a due cifre. Poi l’inflazione è stata domata, e le sue distorsioni sono cadute nel dimenticatoio. Ma dimenticare l’esistenza di una malattia tossica non deve significare ometterla, quando si fa l’analisi dei costi e dei benefici di una cura. Per cui il quoziente di equità ci dice quanto in un Paese la crescita economica è viziata da una redistribuzione iniqua; più il rapporto è alto, più l’effetto iniquità è basso.

Passiamo dunque alle pagelle. Utilizzando la bussola di Taylor, la politica monetaria della Bce è risultata sempre espansiva rispetto alle condizioni macroeconomiche esistenti in Italia. Il risultato vale non solo complessivamente, ma anche nei tre periodi relativi alle presidenze Duisenberg, Trichet e Draghi. Il giudizio specifico sulla politica monetaria di Mario Draghi vede all’inizio del periodo i mercati incorporare il cambio di passo rispetto al precedente governatore Trichet; poi, con il passare del tempo, la reputazione reflattiva e anti-recessiva della Bce di Draghi prima si stabilizza, per poi crescere. Una reputazione coerente con gli annunci: durante tutto il suo mandato Draghi ha affermato come l’obiettivo operativo della Bce fosse quello di avere una politica monetaria espansiva per contrastare l’intreccio tra rischio deflazione e rischio recessione.

Passando alle performance macroeconomiche dell’Italia, il primo raffronto utile da fare è quello tra il ventennio euro (1999-2018) e i due ventenni precedenti: quello ante-euro (1978-1998) e quello post secondo conflitto mondiale (1956-1977). Partendo dall’inflazione, la variazione dei prezzi al consumo nel nostro Paese passa dal 714 punti base del periodo postbellico ai 908 del periodo ante-euro, per poi cadere a 178 punti base nel periodo euro. Anche la crescita economica scende progressivamente: 513, 228 e 44 punti base rispettivamente nei tre periodi. L’indice complessivo – il quoziente di equità – parte da 71 punti base nel periodo post bellico, scende a 32 punti base negli anni ante-euro, risale nel periodo euro a 55 punti base. All’interno degli anni dell’euro, sale ancora nel periodo Duisenberg – 65 punti base – per poi registrare l’evento straordinario della grande crisi, scendendo prima a 52 poi a 22 punti base.

Quindi, che cosa possiamo dire degli anni dell’euro? La risposta dipende dagli insegnamenti che l’analisi economica ci suggerisce su quello che un’unione monetaria può e non può dare. Avere un’unione monetaria significa avere una banca centrale indipendente transnazionale che gestisce la politica monetaria. Ricordiamo quali sono i possibili effetti macroeconomici, sulla base degli studi empirici: avere banche centrali indipendenti riduce il rischio inflazione, senza effetti negativi netti sulla crescita economica.

È quello che è accaduto nell’area euro – quoziente equità pari a 108 punti base – ma anche per l’Italia – quoziente equità uguale a 55 punti base. Quello che occorre domandarsi è perché il guadagno netto per il nostro Paese è la metà di quello dell’area euro nel suo complesso, anche se quasi il doppio rispetto al ventennio che ha preceduto l’unione monetaria.

La risposta è in quello che un’unione monetaria non può dare: la capacità di crescere, oppure di reagire a shock macroeconomici avversi, dipende dalle altre politiche economiche, quelle cioè gestite dai governi nazionali, o da Bruxelles. I risultati ottenuti con i nostri semplici indicatori sono peraltro in linea con quelli finora ricavati dalle analisi condotte con metodologie più sofisticate: la convergenza tra i paesi dell’area euro è avvenuta sulle variabili nominali – tassi di interesse e tassi di inflazione – ma non in termini di reddito pro capite. 

Chiarire la differenza tra quello che può e non può dare un’unione monetaria, è fondamentale per la percezione che dell’esperienza euro hanno i cittadini europei. Prendiamo gli italiani. Sulla base dell’analisi finora condotta, il loro gradimento rispetto all’euro dovrebbe essere crescente, o almeno costante. Nel 1999 i guadagni erano solo attesi, oggi sono effettivi. Invece il consenso si è ridotto. La differenza tra fatti e percezioni può avere tante spiegazioni. Qui se ne propongono almeno due, che possono anche essere complementari. Da un lato, c’è un problema di conoscenza: non apprezzo abbastanza l’esperienza euro perché non sono cosa sia ragionevole aspettarsi da un’unione monetaria, e cosa no. Dall’altro lato, può esserci un atteggiamento psicologico. Lo possiamo chiamare attenzione selettiva: i cittadini tengono conto solo delle informazioni che gli piacciono di più. Per cui nel valutare l’esperienza euro si dimenticano i vantaggi ottenuti, e invece ci si rammarica per l’impossibilità di gestire una politica monetaria nazionale. Oppure trascurano completamente il fatto che l’incapacità del Paese di crescere era iniziata ben prima del 1999. In conclusione: i voti di Draghi, della Bce e dell’euro sono buoni. Lo stesso non si può dire dei politici, a Roma come a Bruxelles.

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare dell’Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Il presente articolo riprende un’analisi sviluppata nel libro con Alberto Orioli, Draghi, Falchi e Colombe. L’Italia e l’Euro (2011-2019), Edizioni Sole 24 Ore, 2019.

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