La leadership che semina futuro
“”La vita è la ricerca continua del nuovo e
dell’improbabile, unico modo per sopravvivere”.
Ernesto Illy
Nel luglio 2025 sono stato invitato a partecipare a una tavola rotonda promossa dalla Fondazione Ernesto Illy nell’ambito delle iniziative per il centenario della nascita dell’imprenditore, occasione in cui il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato per la sua dimensione etica, il senso di responsabilità verso la comunità e la passione per l’innovazione e la ricerca. Il mio compito era riflettere sulla concezione di leadership testimoniata da Ernesto Illy. Questo articolo nasce dal tentativo di ricostruirne la visione e di contestualizzarla nel presente. In particolare, propongo una riflessione attorno all’ipotesi per cui l’allontanamento di molti leader da quella concezione contribuisca, almeno in parte, a spiegare la sfiducia e il pessimismo che oggi pesano sul futuro.
Considerato il periodo storico in cui si colloca l’esperienza di Illy, è importante chiarire che questa riflessione non si fonda su un’operazione nostalgica o su un rimpianto per un presunto “periodo d’oro” dell’imprenditoria. Al contrario, essa si propone come chiave interpretativa per comprendere molti fenomeni avversi che osserviamo oggi tanto nelle organizzazioni quanto nella società. Anticipo la tesi che vorrei sostenere a conclusione di questa riflessione: il modello e i valori sottostanti a cui si ispirava Ernesto Illy (ma non solo) appaiono straordinariamente contemporanei, non nel senso di una superiorità universale del fondamento etico o morale di questo modello, ma con riferimento alla capacità di cogliere e affrontare le sfide del nostro tempo.
Una serie di segnali convergenti conferma la profondità della crisi di fiducia che attraversa oggi le democrazie avanzate. Una recente indagine condotta da un gruppo di studiosi di Sciences Po – rilanciata dal Financial Times nel gennaio 2025 – ha messo in luce il prevalere, tra i cittadini europei, di sentimenti di sfiducia, disillusione, pessimismo e scontrosità. A questo quadro a tinte decisamente fosche si affiancano i risultati del Global Trustworthiness Ranking pubblicato da IPSOS (2024), che misura il livello di fiducia verso gruppi sociali/professionali in base alla percezione pubblica della loro affidabilità. Le professioni che godono di maggiore fiducia (medici, scienziati, insegnanti) incarnano competenze in larga parte tecniche, verificabili, applicate al miglioramento individuale o collettivo, senza apparente interesse personale. Sono categorie percepite come “neutrali” o “al servizio”, ancorate a standard professionali condivisi. Al contrario, le figure chiamate a fornire direzione, visione del futuro e risposte ai grandi problemi (politici, leader aziendali, dirigenti pubblici) registrano il più basso livello di fiducia collettiva e sono viste come portatrici di agende miopi, quando non opache, e autoreferenziali. Questo sentimento di sfiducia prende corpo nella delegittimazione della funzione di “indicare la rotta”, e rappresenta un segno incontrovertibile del decadimento e della crisi del capitale simbolico generato dalle classi dirigenti.
Comprendere la complessità
Tra le intuizioni più lucide dei modelli previsionali sviluppati qualche decennio fa, vi è senz’altro quella relativa alla complessità strutturale destinata a caratterizzare il nostro tempo, una complessità che, alla prova dei fatti, è stata persino sottovalutata. Qualunque sia la prospettiva adottata – geopolitica, economica o sociale – è difficile negare che ci troviamo oggi in una condizione di maggiore complessità, intesa sia come molteplicità e poliedricità delle forme con cui la volatilità e l’incertezza si manifestano, sia con riferimento alle interconnessioni e interdipendenze tra di esse (Cravera, 2021).
Per rendere più tangibile questo concetto è utile ricorrere a un esempio. Il Global Risk Report del Word Economic Forum (2025) analizza i principali fattori di rischio che caratterizzano la società e l’economia contemporanee. L’elenco dei rischi individuati è lungo e, a ben vedere, riflette temi e preoccupazioni già ampiamente trattati sulle pagine dei quotidiani e nel dibattito pubblico online. Tuttavia, l’aspetto più interessante – e al tempo stesso più complesso – non è tanto la lista in sé, la probabilità che queste minacce si concretizzino o l’impatto dei singoli fattori su società ed economia, quanto la mappa delle interdipendenze e delle interconnessioni tra i fattori di rischio. Fenomeni come l’instabilità geopolitica, la crisi climatica, la polarizzazione sociale e l’autonomia dell’intelligenza artificiale non vengono considerati in modo isolato ma come nodi di un sistema reticolare, in cui ogni elemento interagisce con gli altri.
Che le interazioni fossero la chiave di accesso per capire la complessità l’aveva già intuito Herbert Simon, tra i più influenti studiosi di scienze organizzative, padre della teoria della razionalità limitata e premio Nobel per l’economia nel 1978. In uno dei suoi contributi più visionari, “The Architecture of Complexity” (1962), pubblicato nei Proceedings dell’American Philosophical Society, Simon scrive:
“Non mi cimenterò nella proposta di una definizione formale di sistemi complessi. Grossomodo, per sistema complesso io intendo un sistema composto da un elevato numero di componenti che interagiscono tra loro in modo non-semplice. In tali sistemi, l’intero è più che la somma delle singole parti, e ciò non in sommo metafisico senso, ma in uno pragmatico considerato che le proprietà delle singole componenti e le leggi che ne governano la loro interazione non sono affatto secondari nel comprendere le proprietà dell’intero sistema”. (Simon, 1962).
La complessità, dunque, non risiede soltanto nel numero dei fattori di rischio coinvolti, ma soprattutto nella natura delle loro interazioni. Ma come agisce un leader di fronte alla complessità? La riduce artificialiosamente, ricorrendo a scorciatoie (come purtroppo osserviamo drammaticamente in certe classi dirigenti), oppure la abbraccia, la sfida e la incorpora nell’elaborazione strategica?
Il pericolo della semplificazione
Il lavoro di ricerca di Karl Weick fornisce un quadro particolarmente utile per interpretare la leadership, soprattutto in relazione a due intuizioni che sono diventate fondamento della ricerca cognitiva sul funzionamento delle organizzazioni: il sensemaking e il sensegiving (Weick, 1995). La prima descrive il processo attraverso cui gli attori organizzativi attribuiscono retrospettivamente un senso agli eventi. Specie in situazioni complesse, le persone non agiscono sulla base della realtà in sé, ma dell’interpretazione che ne danno. A questa funzione interpretativa si affianca il sensegiving, ossia la capacità del leader di orientare attivamente la costruzione di senso da parte degli altri. Il leader, dunque, agisce sull’interpretazione prima ancora che sull’azione, configurandosi come un dispositivo cognitivo: guidare significa strutturare l’incertezza influenzando le cornici attraverso cui la realtà viene compresa.
Come accade durante un sisma, la semplificazione artificiale operata da certi leader genera onde d’urto che si propagano nel sistema, amplificando – anziché attenuare – gli effetti negativi. Una delle conseguenze più insidiose di questo processo è l’accentuazione dei conflitti. Su questo punto, con particolare riferimento alla crescente polarizzazione dei significati e delle interpretazioni della realtà, il collega Joel Baum della Rotman School of Management dell’Università di Toronto ha introdotto un’espressione particolarmente efficace: guerra epistemica.
Non si tratta di un semplice scontro ideologico o di interessi, bensì di una divergenza profonda su ciò che viene riconosciuto come vero, su ciò che vale come conoscenza e su come viene attribuito senso agli eventi. Si pensi, ad esempio, alla cosiddetta “guerra dei dazi”: al di là delle sue implicazioni tecniche, non è forse questa una forma di guerra epistemica? Un conflitto che frammenta e polarizza la rappresentazione stessa del ruolo dei dazi, scardinando principi dati a lungo per acquisiti nel contesto internazionale. Casi analoghi si osservano nelle controversie sui vaccini o sul fenomeno dell’immigrazione. Di fronte a una guerra epistemica, quali spazi restano per soluzioni win-win, o anche solo per un compromesso? Frutto di una semplificazione che banalizza la complessità, la guerra epistemica è una strategia forse rassicurante, ma che, quando forzata in contesti complessi, conduce a una chiarezza effimera e produce rigidità, finendo per esacerbare ulteriormente i conflitti.
Conoscenza, senso e speranza
Tornando all’esempio di Ernesto Illy e al suo definirsi “scienziato e uomo di business”, emerge con chiarezza come questa doppia identità non fosse un semplice vezzo intellettuale, ma l’espressione di un autentico approccio epistemico alla realtà, capace di incorporare la complessità. Non è dunque un caso che Andrea Illy, attuale Presidente dell’azienda, nel ricordare il padre abbia indicato proprio la complessità e la conoscenza come idee portanti del suo pensiero, ma anche come “semi”. Questo punto è centrale: abbracciare la complessità significa non solo adottare una prospettiva più realistica, ma anche avere un maggiore senso di responsabilità verso le generazioni future, seminando oggi ciò che loro potranno raccogliere domani. Il pensiero strategico che incorpora la complessità è, per sua natura, un “seme”: diacronico, dinamico e nemico del breve termine. Al contrario, nella società contemporanea esiste ciò che definirei la “grande tentazione” generata dalla possibilità di misurare in un tempo fisico brevissimo (“reale” si direbbe) il sentimento suscitato dalle nostre azioni o idee; la scala e la velocità del feedback sincronico rispetto alle azioni dei leader non sono mai state così elevate. Grazie alla tecnologia, ogni pensiero e azione può contare su un feedback immediato e quantitativamente senza precedenti nella storia del genere umano. La ricerca del gradimento sincronico genera però una patologia che in tempi di complessità è molto grave: restringe l’orizzonte temporale di riferimento, favorisce il breve, l’istante rispetto al lungo, alla pazienza. Il consenso è disponibile in tempo reale, ma proprio per questo diventa evanescente, e inevitabilmente instabile. Nel 2022, in un articolo apparso sulle pagine economia del Corriere della Sera, ho segnalato questo rischio analizzando la traiettoria di un noto e indiscutibilmente innovativo imprenditore americano; ben prima del suo impegno diretto nell’agone politico della campagna elettorale e della politica. Purtroppo, come poi la storia ha dimostrato, le sirene del consenso a breve attraverso le scorciatoie cantano in tutti i contesti e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Il senso di responsabilità e la tensione etica a cui leader come Ernesto Illy fanno riferimento si condensano in una qualità essenziale: la capacità di fare sensemaking, assorbendo la complessità senza ridurla in modo artificiale, ma anche senza esserne sopraffatti. Ciò implica adottare una prospettiva di lungo termine, capace di anticipare scenari e di trasmettere visioni in grado di ispirare grandi risultati e traguardi. In altre parole: guardare lontano, abbracciando la complessità.
A questo si affianca la seconda funzione indispensabile del leader: il sensegiving. La leadership non si esercita solo nel campo della realtà ma anche in quello della possibilità; non è importante solo dire come stanno le cose ma come potrebbero essere. E qui torna il binomio scienziato-imprenditore, o scienziato-manager: la capacità di usare la conoscenza (necessariamente complessa) del probabile (o del “plausibile”) per trasmettere agli altri il senso del possibile. Il leader sense-giver non si limita a decodificare il contesto con un pensiero complesso, ma offre agli altri un quadro di riferimento entro cui ciò che è realizzabile appaia anche credibile, desiderabile e condivisibile. Come un pittore o un poeta, il leader disegna cornici interpretative che rendono visibile l’invisibile, nominabile ciò che ancora non esiste.
In tempi in cui i nessi causali tra azioni e risultati sono opachi, la legittimazione dell’agire passa anche per la costruzione di speranze fondate. Il leader è quindi – anche – un fornitore di senso perché in un mondo in cui i rapporti di causalità “azione → risultati” sono opachi e complessi, le grandi azioni si giustificano solo attraverso grandi speranze. E la speranza è un grande motore di coesione all’interno di qualunque contesto sociale. In un famoso intervento all’Università Bocconi nel 2013, Sergio Marchionne citando una fonte non conosciuta disse: “Si dice che gli esseri umani possano vivere quaranta giorni senza cibo, quattro giorni senza acqua e quattro minuti senza aria. Ma nessuno di noi può vivere quattro secondi senza speranza” (Marchionne, 2013). Questa è la lezione di leader come Ernesto Illy: la leadership non è solo gestione, né pura amministrazione del presente. È un atto di responsabilità etica, cognitiva e simbolica verso il futuro.
Riferimenti bibliografici
Cravera, A. (2020). Allenarsi alla complessità: schemi cognitivi per decidere e agire in un mondo non ordinato. Egea, Milano.
Herbert, A.S. (1962). “The Architecture of Complexity.” Proceedings of the American Philosophical Society, 106(6), 467-482.
IPSOS (2024). Global Trustworthiness Index 2024. Retrieved from: ipsos.com.
Marchionne, S. (2013). Intervento all’Università Bocconi. [Video]. YouTube. youtube.com.
Soda, G. (2022). “Musk, il padre padrone che copia dalla politica.” Corriere della Sera.
World Economic Forum (2025). Global Risks Report 2025. Retrieved from: weforum.org.
Weick, K.E. (1995). Sensemaking in Organizations. Sage Publications, Thousand Oaks, CA.
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