Emergenza Coronavirus

05/03/2020 Fabrizio Perretti

Le imprese italiane esposte al contagio

Nonostante il rischio recessione, la crisi in corso può essere occasione di grande cambiamento nell’organizzazione del lavoro, nelle strategie di delocalizzazione e di outsourcing, nell’approccio commerciale

Il coronavirus Covid-19 avrà un impatto negativo sulle imprese italiane. Il tema non è più «se», ma quante saranno quelle interessate e quanto forte sarà l’impatto. Così come è incerta ogni previsione sullo scenario dell’evoluzione dell’epidemia tra le persone, lo stesso vale anche per le imprese. Vi sono però alcune differenze tra le due popolazioni, quella del genere umano e quella delle imprese: se nel primo caso (al cui interno si conteggiano soggetti con sintomi conclamati, ospedalizzati, in terapia intensiva e deceduti) il contagio costituisce una percentuale fortunatamente esigua, nel secondo il «contagio» – ovvero l’esposizione a effetti economici negativi legati al virus – interessa invece la maggior parte delle imprese. Il vero punto adesso è comprenderne il decorso e intervenire – dove necessario – con le cure a nostra disposizione.

 Cerchiamo innanzitutto di capire, applicando la stessa prospettiva dell’epidemiologia, quali sono state le imprese italiane esposte al contagio e i relativi meccanismi di trasmissione. Inizialmente sono state interessate tutte quelle imprese che hanno rapporti – sia dal punto di vista dell’offerta, sia dal punto di vista della domanda – con la Cina. Nel momento in cui le imprese cinesi hanno interrotto o rallentato la produzione, quelle italiane esposte hanno avuto problemi nelle forniture che – nei molti casi di mancanza di scorte adeguate – si sono trasmessi a cascata nell’evasione degli ordini verso i propri clienti con conseguente rallentamento nei pagamenti o perdita delle commesse. In modo simile, nel momento in cui i clienti cinesi – siano essi imprese o consumatori finali – hanno fermato o rallentato la produzione o le persone sono state costrette a misure di quarantena, riducendo quindi i consumi di beni non essenziali o superflui (come per esempio quelli legati alla moda, al design o alla gioielleria), molte imprese italiane, soprattutto quelle che operano nei settori che contraddistinguono il made in Italy, hanno subito effetti negativi. Le imprese italiane esposte alla Cina sono state quindi quelle interessate dalla prima ondata di contagio. Giusto per dare un ordine di grandezza, con un interscambio complessivo di circa 45 miliardi euro (2018), la Cina rappresenta per le imprese italiane il terzo Paese in termini di import (31 miliardi, pari al 7,3 per cento del totale) e il nono Paese in termini di export (13 miliardi, pari al 2,8 del totale).  

La seconda ondata, ben più estesa e ancora più grave, è avvenuta quando l’epidemia ha interessato direttamente il nostro Paese e l’Italia – prima in Europa – ha scalato le classifiche delle nazioni più colpite al mondo (dati alla mano, al 5 marzo è quarta in termini di contagi tra la popolazione e terza in termini di numero totale di decessi). Il progressivo isolamento internazionale ha inizialmente esposto al contagio tutte le imprese che dipendono dai flussi turistici stranieri, un comparto che in Italia vale circa 40 miliardi di euro all’anno. Ma anche il turismo italiano ne risente, soprattutto nelle regioni maggiormente colpite. In queste ultime, purtroppo, si somma un effetto aggiuntivo, quello cioè derivante dal rallentamento dei consumi connesso alle misure di contenimento dell’infezione e alla paura che si è creata nella popolazione. Il fatto che questo rallentamento sia avvenuto nelle regioni del Nord Italia, ovvero quelle più ricche e quindi con una maggiore propensione al consumo, ha accentuato ulteriormente gli effetti negativi.  Solo a titolo di esempio, il settore della ristorazione in Italia vale 85 miliardi di euro annui e in termini di numero di imprese la Lombardia e il Veneto sono rispettivamente la prima (15 per cento) e la quarta regione (8 per cento). Anche su questo fronte, l’espansione del contagio in Italia non può che aumentare gli effetti negativi.

Se questi sono i gruppi di imprese che sono stati fino a ora contagiati, l’effetto negativo complessivo del coronavirus si chiama recessione. In fondo ogni recessione ha le caratteristiche di un contagio: inizia in un determinato contesto (la crisi dei subprime americani nella recessione del 2008) e in genere si espande a livello globale. E come tutte le recessioni, anche questo contagio avrà nella popolazione delle imprese i suoi malati, con le relative sofferenze, e anche (speriamo pochi) casi di mortalità. Come si cura questa epidemia nel caso delle imprese? Nonostante le differenze tra le due popolazioni, la cura è la stessa applicata alle persone e non può che essere affidata allo Stato. Perché in tempi di emergenza solo lo Stato è in grado di mobilitare le risorse necessarie. Proprio quello Stato che molti economisti vorrebbero ridurre ai minimi termini e che, come ci insegna Max Weber riferendosi alle burocrazie, «tutti odiano fino a quando non ne hanno bisogno».

In ogni epidemia, il contatto con il virus – se non uccide – modifica in parte anche il nostro organismo e si maturano anticorpi in grado di farci resistere a eventuali infezioni successive. In modo simile, molte imprese esposte al contagio hanno già reagito e hanno già iniziato a trasformarsi: alcune hanno cambiato l’organizzazione del lavoro introducendo o potenziando soluzioni di smart working o di automazione negli impianti produttivi, altre stanno ripensando le loro strategie di delocalizzazione e di outsourcing, per evitare situazioni di eccessive dipendenze da alcune nazioni, altre stanno riconfigurando la loro presenza commerciale online tramite soluzioni più avanzate di e-commerce. E saranno proprio le imprese nelle nazioni più colpite – Cina in testa – a trasformarsi di più. Le crisi sono infatti tempi di grandi rischi, ma anche – per chi le supera – occasioni di grande cambiamento. Speriamo positivo.

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