Economia & Mercati

13/05/2022 Donato Masciandaro

Effetto guerra e banche centrali: un peso, tante misure

All’indomani dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, le banche centrali dell’area euro, degli Stati Uniti, della Cina e della Russia hanno dovuto fare i conti con lo shock bellico. Tutte hanno dovuto considerare tre elementi egualmente importanti: il ciclo congiunturale, la strategia di politica monetaria, l’elemento geopolitico. Ma poi, ciascuna di esse ha adottato strategie assolutamente differenti.

Lo scorso 10 marzo la BCE apriva il suo comunicato stampa relativo alle decisioni di politica monetaria con l’aggressione russa all’Ucraina, definendolo un «evento spartiacque per l’Europa». Dal quel momento è stato evidente come l’evoluzione dell’evento bellico sarebbe diventato cruciale per indirizzare una navigazione monetaria, che deve trovare un equilibrio tra l’evitare il rischio inflazione, da un lato, e ridurre il rischio recessione, dall’altro.

In questo senso, la BCE comunicava nell’aprile 2022 una strategia basata su due passi successivi: prima una progressiva riduzione dell’immissione di liquidità sui mercati, e solo qualche tempo dopo una riconsiderazione dei tassi. Il messaggio è stato chiaro: data l’incertezza, sia la rotta sia la velocità saranno le stesse. Rimanendo pronta a modificare l’una e l’altra, se nuove informazioni cambiassero lo scenario macroeconomico. L’annuncio di aprile ha confermato la rotta che, inizialmente scelta nel dicembre 2021, è stata progressivamente aggiornata e calibrata sulla base dell’evoluzione congiunturale. Quindi è rimasta invariata la sequenza già prevista di azioni monetarie: prima vi è la progressiva riduzione della creazione di liquidità, fino a giugno, e dopo si potrà considerare l’ipotesi di un aumento dei tassi.

È un annuncio che ha riecheggiato la filosofia del gradualismo nella politica monetaria, riassunta da una frase pronunciata da Mario Draghi, all’epoca presidente della BCE, nel marzo del 2019: in quell’occasione si consigliava, quando si è al buio, di muoversi a piccoli passi. Di fronte alle preoccupazioni di chi avrebbe gradito un’accelerazione in senso restrittivo della politica monetaria, la BCE ha fatto notare che è vero che i prezzi sono cresciuti più del previsto, ma che ancora il fenomeno non ha quelle caratteristiche strutturali che lo rendono preoccupante. Di che cosa si tratta? Del fatto che ancora non ci sono segnali significativi che l’aumento dei costi, avvenuto a causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime, si stia incorporando in salari e stipendi, attraverso il meccanismo delle aspettative. Se questo accaddesse, sarebbe il canto del canarino nella miniera, che consiglierebbe di rivedere la politica monetaria. Inoltre, ha continuato la BCE, quando lo shock che colpisce i prezzi trae origine dai costi delle imprese, bisogna essere due volte prudenti, per evitare che una prematura, o eccessiva, restrizione monetaria inneschi una recessione.

Diversa è stata la reazione della FED. Il 16 marzo la banca centrale americana prendeva sì atto dell’evento bellico e del suo effetto in termini di maggiore incertezza, ma soprattutto si concentrava sulla necessità di riportare il tasso di inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento. A tal fine, si decideva una prima risalita dei tassi, anticipando ulteriori innalzamenti – poi avvenuti – sempre per contrastare la crescita inflazionistica. Per la FED l’Ucraina è lontana, perché gli effetti economici dell’evento bellico per l’economia statunitense sono trascurabili.

Ancora diversa è stata la reazione della banca popolare di Cina. Alla fine del mese di marzo – il giorno esatto non viene fornito, che è quantomeno curioso – il consiglio della banca centrale cinese si riunisce e nel suo comunicato stampa non c’è alcuna menzione dell’Ucraina; nella analisi della congiuntura economica mondiale vi è generico riferimento alla «crescita di conflitti geopolitici». Non c’è traccia del rischio inflazione, che preoccupa la BCE e ossessiona la FED. Qui, se c’è un’ossessione, è un’altra: la politica monetaria deve finanziare la crescita economica, in modo da raggiungere gli obiettivi definiti dal presidente Xi Jinping nel corso del XIX congresso del partito comunista. Ma se l’ossessione è la crescita, allora un conflitto che può minare la ripresa economica mondiale, da cui l’economia cinese molto dipende, dovrebbe preoccupare la banca popolare. Nessuna preoccupazione. Almeno per iscritto. Anche nelle settimane successive. 

E la banca centrale russa? All’indomani dell’aggressione militare all’Ucraina, sullo scacchiere dei rapporti economici tra il presidente Putin e l’occidente la prima mossa è stata di questi ultimi, attivando le sanzioni finanziarie. Proseguendo nella metafora degli scacchi, si è trattato di uno scacco al re. È bastato che il consorzio internazionale SWIFT – belga come sede legale, quindi in conformità alle indicazioni ricevute dalla BCE – cominciasse a inibire alle maggiori banche russe l’uso dei codici di sicurezza necessari per gli scambi internazionali per provocare un crescendo di difficoltà per le imprese e le istituzioni russe, con relativi danni economici.

La prima vittima dello scacco al re è stato il rublo. Chi conosce l’economia e la storia sa che la necessità di difendere la stabilità del valore del rublo è una pietra angolare per la politica economica russa. Le ragioni sono due. Dal punto di vista dell’economia reale: il pilastro delle risorse è rappresentato dai ricavi ottenuti dalla vendita delle materie prime, che vanno stabilizzati. Dal punto di vista dell’economia finanziaria: tutti i russi – dagli oligarchi ai comuni cittadini – hanno una endemica tendenza alla dollarizzazione delle proprie attività. Perché? Non si fidano della capacità dello Stato russo di tutelare il valore del rublo, stante una tradizione di dolorose svalutazioni e inflazioni. Dunque la stabilità del rublo è essenziale. Non è un caso che in questi anni la governatrice Nabiullina – la regina, nella nostra metafora – si è guadagnata sul campo la fama di un essere un «falco» nella gestione della politica monetaria, avendo avuto sempre la barra dritta proprio nella difesa del valore del rublo. Ma lo scacco al re ha fatto crollare il valore del rublo sui mercati finanziari.  

La regina allora ha immediatamente innalzato i tassi di interesse, con l’intento di comunicare ai mercati che la Russia avrebbe difeso il valore del rublo; inoltre sono stati introdotti controlli ai movimenti di capitale. Insomma, una sorta di whatever it takes. Ma perché un whatever it takes funzioni, esiste una condizione necessaria, ancorché non sufficiente: che chi lo pronuncia deve essere credibile. Nel 2012 l’originale whatever it takes riassumeva tre elementi: un governatore stimato e indipendente, una valuta forte, a sua volta espressione di una federazione di Paesi avanzati e democratici. Il whatever della Nabiullina aveva solo una regina stimata, che per di più stava attuando una manovra già fallita, proprio in Russia, all’inizio della crisi del 1998. Era una regina che stava facendo quello che il re voleva. Infatti non è servito a nulla. A catena, lo scacco al re provoca una seconda vittima: si inizia a incrinare la fiducia dei cittadini, con il suo corollario di file ai bancomat. Perché anche i cittadini hanno memoria di come finì la partita nel 1998: crisi finanziaria, inflazione, recessione economica. La regina sparisce dalla scacchiera. E il re che muove, annunciando che l’Occidente dovrà pagare le sue importazioni dalla Russia in rubli. È la mossa del cavallo. La mossa non ha alcun senso secondo l’analisi economica. Ma qui è l’analisi politica che conta, cioè la necessità di ottenere il consenso. Infine, il re annuncia un tasso di cambio fisso tra il rublo e l’oro, fissando un prezzo di 5000 rubli per un grammo d’oro, valido almeno fino al prossimo 30 giugno.

Le tre misure possono essere comprese sotto il nome di «sovranismo valutario», essendo politiche che mirano ad aumentare la domanda della valuta nazionale. Il sovranismo valutario deve fare i conti con gli incentivi che imprese e famiglie hanno da usare, o non usare, una certa valuta per le transazioni. Gli incentivi sono a loro volta di duplice natura: la valuta deve essere sicura, nel senso di garantire chi la usa che verrà accettata negli scambi; allo stesso tempo una valuta deve essere stabile, cioè che nel tempo il suo potere d’acquisto in termini di beni e servizi reali non si riduca. In una sola espressione, la domanda di una moneta dipende da quanto sia un safe asset. Di riflesso, politiche pubbliche di controllo dei capitali, o di definizione di un controvalore per legge, hanno le gambe corte: possono essere efficaci solo in un orizzonte di breve, talvolta di brevissimo periodo.

Una valuta è tanto più sicura e stabile non perché lo impone una legge estemporanea, ma in quanto è il risultato ultimo delle scelte che tante imprese e famiglie fanno, per di più per un lungo periodo. Solo in un orizzonte di almeno qualche decennio divengono cruciali anche gli aspetti geopolitici, che possono incidere sulla natura di safe asset di una moneta. Una moneta è tanto più sovrana quanto più le famiglie e le imprese dello Stato in cui ha corso legale la utilizzano per le loro transazioni reali e finanziarie. Se poi anche operatori esteri fanno lo stesso, la sua sovranità aumenta; diventa una moneta dominante. Essere safe asset è proprietà necessaria, ma non sufficiente; poche monete possono aspirare allo status di moneta dominante, e comunque mai in modo irreversibile.

Nella storia, le monete dominanti si sono susseguite, con successi e crolli, che riflettevano quelli delle istituzioni che garantivano la loro credibilità di safe asset. Di volta in volta, le monete di Genova, Firenze, Venezia, Amsterdam, e poi di Portogallo e Spagna, e poi ancora di Regno Unito e Stati Uniti, si sono susseguite. Il nostro secolo vede il dollaro come moneta dominante, con l’euro a rappresentare la più recente storia di successo. Per le altre circa 180 valute oggi esistenti, il destino è quello di essere valute minori. Solo la Cina, con il suo renminbi, sembra poter aspirare ad avere un ruolo maggiore in futuro. Ma divenire safe asset, e poi moneta dominante, è una marcia lunga e incerta. Con buona pace dei sovranisti valutari, inclusi i nostrani nostalgici della vecchia lira, o magari di quota novanta.

 

Per saperne di più:

  • Fatas, A. and Sing, S.R., 2022, Supply or Demand? Policy Makers’ Confusion in the Presence of Hysteresis, mimeograph.
  • Ilzetki E., Reinhart C.M. and Rogoff, K.S., Rethinking Exchange Rate Regimes, NBER Working Paper Series,n.29345.
  • Taylor, J.B., 2021, The Optimal Re-entry to a Monetary Policy Strategy, mimeograph.

 

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario

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