Economia & Mercati

14/12/2021 Gianmarco Ottaviano

I green jobs e la sfida della transizione ecologica

L’espansione del settore dell’imprenditoria green rappresenta un’occasione imperdibile per il rilancio occupazionale sia nei Paesi avanzati sia in quelli in via di sviluppo. Questo potrà realizzarsi solo adottando politiche economiche e sociali che aiutino i lavoratori ad adattarsi alle nuove dinamiche del mercato, prime fra tutte quelle volte a promuovere investimenti su larga scala nei sistemi di istruzione e formazione a livello sia secondario sia terziario.

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), l’agenzia che si occupa di mercato del lavoro presso le Nazioni Unite, la transizione verso un’economia verde può effettivamente agire come un nuovo motore per la crescita grazie alla creazione di «buoni» posti di lavoro sia nei Paesi avanzati sia in quelli in via di sviluppo. L’ILO riconosce però che questo esito non è affatto garantito, perché i nuovi posti di lavoro verdi non saranno automaticamente anche posti di lavoro buoni. Lo potranno diventare solo se lo si vorrà fattivamente, adottando politiche economiche e sociali che aiutino i lavoratori ad adattarsi alle nuove dinamiche del mercato. Prime fra tutte le politiche volte a promuovere investimenti su larga scala nei sistemi di istruzione e formazione a livello sia secondario sia terziario.

Un posto di lavoro può essere definito «verde» da due prospettive diverse e complementari: quella del prodotto e quella del processo. Dal punto di vista della produzione, sono verdi i lavori che creano beni o forniscono servizi a beneficio dell’ambiente, come quelli legati all’edilizia a basso impatto ambientale, al trasporto ecosostenibile o alle fonti energetiche alternative. In questo primo caso, il prodotto è verde anche se il processo produttivo non sempre lo è completamente. Dal punto di vista del processo, sono verdi i lavori che contribuiscono a rendere la produzione più rispettosa dell’ambiente, per esempio riducendo il consumo di acqua, controllando l’inquinamento atmosferico o migliorando i servizi di riciclaggio dei rifiuti. In questo secondo caso, il processo produttivo è verde anche se il prodotto non sempre lo è completamente.

I lavori «buoni» o «dignitosi» (traducendo il decent della terminologia anglosassone dell’ILO) sono quelli che rispettano non solo i diritti fondamentali delle persone ma anche i diritti dei lavoratori in termini di sicurezza sul lavoro e di retribuzione, salvaguardandone l’integrità fisica e psichica nell’esercizio dell’attività lavorativa. In questo senso, un posto di lavoro è buono nella misura in cui garantisce un reddito equo, sicurezza sul posto di lavoro e protezione sociale per le famiglie, migliori prospettive di sviluppo personale e integrazione sociale, libertà per le persone di esprimere le proprie preoccupazioni, di organizzare e partecipare alle decisioni che riguardano la loro vita, parità di opportunità e trattamento per tutte le donne e gli uomini.

Ne consegue che non tutti i lavori verdi sono necessariamente buoni. Per esempio, molti dei lavori attualmente legati alla raccolta e al riciclaggio dei rifiuti recuperano le materie prime e contribuiscono ad alleviare la pressione sulle risorse naturali. Sono pertanto lavori verdi. Tuttavia, in diverse parti del mondo non si possono definire buoni, perché si svolgono spesso in ambienti pericolosi e in condizioni igieniche precarie, provocando danni significativi alla salute. Inoltre, l’occupazione tende a essere precaria, non protetta e mal pagata. Per questo motivo, allo scopo di evitare ogni fraintendimento durante la transizione ecologica, l’ILO ha proposto di concedere il «bollino verde» solo ai lavori che non solo sono verdi ma anche buoni, cioè lavori dignitosi che contribuiscono a migliorare l’efficienza energetica e la gestione delle materie prime, a limitare le emissioni di gas serra, a ridurre al minimo gli sprechi e l’inquinamento, a proteggere e ripristinare gli ecosistemi, a favorire l’adattamento agli effetti del cambiamento climatico.

In quest’ottica, la grande sfida occupazionale della transizione ecologica è quella di trasformare posti di lavoro attualmente «neri» e «cattivi» in almeno altrettanti posti di lavoro verdi e buoni, senza lasciare indietro nessuno. Il rischio è infatti quello di un contraccolpo sociale che, di fronte alla mancata inclusione, porti all’interruzione delle iniziative necessarie a contrastare gli effetti avversi del cambiamento climatico. Un rischio concreto soprattutto perché gli effetti più negativi in termini di occupazione tenderanno a concentrarsi in settori specifici ad alta intensità di emissioni, a loro volta concentrati in aree geografiche limitate, con ricadute politiche facilmente immaginabili.

Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), l’obiettivo di ridurre le emissioni può essere raggiunto solo se i governi terranno pienamente conto degli aspetti sociali associati al perseguimento di politiche climatiche ambiziose, garantendo una «transizione inclusiva» basata sul dialogo e sulla creazione di consenso tra le parti interessate, anche attraverso l’adozione di politiche attive del mercato del lavoro per guidare e facilitare la riollacazione delle risorse umane.

La transizione ecologica comporterà una riduzione dell’attività economica e del valore aggiunto nei settori ad alta emissione, con relativa perdita di posti di lavoro. L’effettiva compensazione di questa perdita attraverso la riallocazione dei lavoratori verso posti di lavoro alternativi in industrie in espansione (per esempio quelle delle energie rinnovabili) dipenderà da vari fattori, tra i quali la flessibilità del mercato del lavoro, l’allineamento degli incentivi per investire e coinvolgere i lavoratori in settori a basse emissioni e le misure di sostegno adottate dai governi per agevolare la transizione.

La transizione ecologica avrà un impatto significativo sul fabbisogno di competenze. L’ILO e il Centro Europeo per lo Sviluppo della Formazione Professionale (CEDEFOP) hanno rilevato un divario frequente e significativo tra i livelli di competenze richiesti per i lavori nei settori verdi e gli standard di formazione forniti dalle istituzioni professionali e terziarie nazionali.

Per contribuire al dibattito pubblico su come affrontare nel migliore dei modi queste difficoltà, nel 2016 la Confederazione Sindacale Internazionale (ITUC) ha creato il Centro per una Transizione Giusta (Just Transition Centre), che riunisce intorno a un tavolo i lavoratori con i loro sindacati, le imprese, i governi, le comunità e la società civile per pianificare una transizione giusta verso un mondo a basse emissioni. Secondo l’ITUC, per essere giusta la transizione ecologica dovrà garantire il futuro e i mezzi di sussistenza dei lavoratori e delle loro comunità. Per farlo, dovrà fornire posti di lavoro dignitosi, protezione sociale, opportunità di formazione e sicurezza del lavoro a tutti i lavoratori danneggiati dalle politiche di contenimento del riscaldamento globale e del cambiamento climatico.

Per l’occupazione la transizione ecologica rappresenta sì una grande opportunità, ma anche una grande sfida. Soprattutto in un mercato del lavoro come il nostro, che in anni recenti ha avuto difficoltà ad assorbire gli effetti negativi di altre transizioni epocali, come quelle legate alla globalizzazione, all’automazione e all’ICT.

Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies. Scrive sul Sole 24 Ore e su lavoce.info. Per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle due testate.

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