Economia & Mercati

02/11/2021 Donato Masciandaro

Si vis pacem, para bellum: Afghanistan, talebani e quarantena finanziaria

La comunità internazionale ha a disposizione una arma di deterrenza nei confronti del governo afgano nel caso in cui non rispettasse i diritti civili e politici della popolazione: la quarantena finanziaria. Si tratta di un provvedimento in base al quale al Paese deviante viene precluso qualsiasi accesso ai circuiti bancari e finanziari internazionali. Nessuno però ne parla. Perché?

L’Unione europea sta decidendo se e come riaprire i rapporti con il nuovo governo dell’Afghanistan. L’UE, come la quasi totalità della comunità internazionale si è dichiarata preoccupata per possibili atti del regime talebano che possano violare i diritti civili e politici della popolazione. Quindi non si prende in considerazione l’ipotesi di un riconoscimento formale del regime. Allo stesso tempo, occorre capire come aprire «una relazione calibrata» con il governo talebano – espressione usata da Bruxelles – per evitare che guadagnino ulteriori spazi quei Paesi come Cina, Russia e Turchia, che non hanno mai chiuso le loro ambasciate a Kabul. Per definire una relazione calibrata potrebbe essere utile avere uno strumento pacifico di deterrenza. L’analisi economica ce ne indica uno: la quarantena finanziaria.

Partiamo da che cos’è l’Afghanistan dal punto di vista macroeconomico. L’ultimo rapporto Paese del Fondo Monetario Internazionale (FMI) – dicembre 2019 – sottolinea tre aspetti peculiari. Primo, l’Afghanistan è una nazione debole, con una crescita sistematicamente inferiore al 3 per cento, che è la soglia ritenuta minima per un Paese che vuol uscire dal sottosviluppo, nonché con un saldo degli scambi esteri strutturalmente negativo e una valuta in continua svalutazione. Quasi il 55 percento della popolazione risulta essere sotto la soglia di povertà. Purtuttavia, dal 2001, il reddito pro capite è quadruplicato e l’aspettativa di vita è salita da 56 a 64 anni.

Secondo, l’Afghanistan è fortemente dipendente dagli aiuti internazionali, che sono pari al 40 per cento del PIL. Inoltre, l’Afghanistan è un Paese dollarizzato, cioè negli scambi la valuta americana è preferita a quella nazionale. Infine, un tale flusso di risorse dall’estero, sia in termini sia di ammontare che di regolarità, viene giudicato nel rapporto del Fondo la condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per consentire al Paese di crescere e di sostenere il suo debito.

Terzo, l’attività criminale ha un ruolo importante. Da un lato, vi è il mercato delle droghe, che il Fondo stima valere intorno al 10 per cento del prodotto nazionale. Da un altro lato, risulta prioritaria la lotta alla corruzione. Infine, la gran parte degli scambi finanziari interni sfugge alla vigilanza, visto che il sistema finanziario informale risulta pari al 90 per cento del totale. Droga, corruzione e riciclaggio sono una tossina micidiale per lo sviluppo sano e regolare di qualunque comunità, come ben sappiamo anche in Italia.

Dunque l’Afghanistan è un Paese con un’economia fragile e inquinata dal crimine, ma fortemente dipendente dalle risorse finanziarie estere. Se allora la comunità internazionale vuole avere uno strumento di deterrenza, i flussi finanziari devono essere messi sotto i riflettori. Lo scorso luglio il FMI ha dichiarato che, in assenza di un chiaro riconoscimento, ampio e internazionale, del nuovo governo, il Paese non potrà accedere ai suoi prestiti. Lo stesso giorno la FED ha comunicato il congelamento delle riserve ufficiali afgane negli Stati Uniti. La strada è quella di toccare gli interessi finanziari. È la strategia del bastone e della carota: solo se sei conforme alle regole internazionali ti consento l’accesso ai fondi. È la stessa strategia su cui si basa uno strumento diffuso nella deterrenza contro i Paesi devianti: le liste nere (blacklisting).

È una strategia efficace? Se viene applicata come è stato fatto finora, la risposta è no. Lo strumento delle liste nere è stato in questi anni sistematicamente applicato dalla comunità internazionale per affrontare il problema dei paradisi finanziari. A partire dagli anni Settanta, e con una cadenza quasi regolare, l’opinione pubblica mondiale scopre l’acqua calda, cioè che nel sistema finanziario mondiale ci sono dei buchi neri di opacità, i cosiddetti paradisi, tollerati dalle economie avanzate.

La rilevanza dei paradisi finanziari – vale a dire Paesi e territori ad alto grado di opacità delle regole – è cresciuta di pari passo con la globalizzazione dei mercati finanziari. La mobilità dei capitali ha seguito il principio dei vantaggi comparati: poiché esistono operatori che per ragioni diverse – lecite o illecite – considerano una risorsa la riservatezza sulla provenienza e/o la destinazione di determinati flussi finanziari, taluni Paesi e territori hanno trovato conveniente offrire livelli di opacità maggiori della media mondiale. Allo stesso tempo, la presenza dei paradisi viene in generale tollerata dai Paesi avanzati, con un grado di tolleranza che è ciclico. È un esempio classico della cosiddetta entropia della regolamentazione finanziaria: il disegno delle regole oscilla tra gli estremi della tolleranza e dell’intransigenza, a seconda della fase congiunturale, spinta dalla analisi dei costi e benefici politica. Di conseguenza, anche la fisionomia del fenomeno paradisi ha nello stesso un tratto strutturale – è sempre presente – e uno congiunturale – le sue caratteristiche sono mutevoli.

E qui emergono i limiti dello strumento finora utilizzato nella regolamentazione internazionali: le liste nere. Il meccanismo della lista nera è semplice: un organismo internazionale definisce le migliori pratiche regolamentari, analizza i singoli Paesi e inserisce in una lista nera quelli le cui leggi non appaiono conformi agli standard. L’efficacia di una lista nera presuppone l’innestarsi di un meccanismo appunto di bastone e carota rispetto al flusso di capitali internazionali. I flussi di capitali si dovrebbero allontanare da un Paese presente nella lista («effetto stigma»), per poi ritornare quando il Paese viene giudicato nuovamente conforme alle migliori pratiche internazionali. In realtà, l’effetto atteso delle liste nere non è affatto scontato: la presenza di un Paese nella lista nera può divenire una sorta di «patente di opacità», che è fattore attrattivo per quei capitali che all’opacità danno un valore.

Analizziamo l’esempio più emblematico: le liste nere contro il riciclaggio del denaro sporco, che sono state introdotte dal GAFI (Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale) dell’OCSE fin dal 1999. L’effetto stigma esiste? Per rispondere a tale domanda, si possono analizzare i flussi finanziari di 126 Paesi, negli anni che vanno dal 1996 al 2014. In tale arco temporale e per il campione di riferimento sono entrati e usciti dalle liste complessivamente 44, di cui 13 economie avanzate. La presenza dei Paesi nella lista nera ha avuto due ondate: la prima all’inizio della loro introduzione, la seconda dopo la Grande Crisi, iniziata nel 2008. In entrambi i casi, è evidente che la pressione internazionale a identificare i flussi internazionali di capitali – prima per ragioni di contrasto al terrorismo, poi verosimilmente per ragioni di bilancio, essendo le economie avanzate in recessione – è aumentata.

Ma l’effetto sui flussi di capitali c’è stato? Una prima analisi descrittiva, mostra il flusso di capitali registrato nei Paesi inseriti nella lista durante il periodo del provvedimento. L’esistenza dell’effetto stigma implicherebbe sistematicamente un segno negativo, che è invece presente solo in alcuni casi. Una analisi econometrica più approfondita conferma il risultato descrittivo: l’effetto stigma non esiste.

Quindi, se la comunità internazionale vuole utilizzare i flussi di capitali come arma di deterrenza nelle relazioni con un governo afgano che violasse i diritti dei suoi cittadini occorre fare di più. Lo strumento potrebbe essere quello della quarantena finanziaria: al Paese deviante viene precluso qualsiasi accesso ai circuiti bancari e finanziari internazionali. È un provvedimento tecnicamente realizzabile sui sistemi legali. Certo rimarebbero fuori i circuiti informali, da quelli tradizionali alle criptovalute. Ma questo non spiega perché la comunità internazionale abbia negli ultimi quarantanni promosso embarghi di ogni tipo – anche discutibili, come quelli sui medicinali – ma mai un embargo finanziario. Perché pecunia, anche se frutto di narcotraffico, non olet?

 

Per saperne di più:

O. Balakina, A. D’Andrea, D. Masciandaro, «Bank Secrecy in Offshore Centres and Capital Flows: Does Blacklisting Matter?», Review of Financial Economics, 32(1), 2017, pp. 30-57.

D. Garrett, J.C. Suarez Serrato, «How Elastic is the Demand for Tax Havens? Evidence from the US Possessions Corporations Tax Credit», NBER Working Paper Series, n. 25516, 2019.

J. O’Donovan, H.F. Wagner, S. Zeume,, «The Value of Offshore Secrets. Evidence from the Panama Papers», Review of Financial Studies, 32, 2019, pp. 4117-4155.

P.M. Picard, P. Pieretti, «Bank Secrecy, Illicit Money and Offshore Financial Centres», Journal of Public Economics, 95(7-8), 2011, pp. 942-955.

A.K. Rose, M. Spiegel, «Offshore Financial Centers: Parasites or Symbionts?», Economic Journal, 117(523), 2006, pp. 1310-1335.

 

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.

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