Economia & Mercati

13/08/2021 Gianmarco Ottaviano

Brexit and the City

Il governo britannico sta lavorando a una serie di riforme per garantire che Londra resti un importante polo finanziario globale anche dopo il divorzio da Bruxelles. Nella City non tutti sembrano convinti dalla strategia governativa, ma c’è accordo sul fatto che, sebbene la sua «età dell’oro» sia probabilmente finita, ci vorrà tempo prima di vedere emergere in Europa un vero centro finanziario rivale.

Qui da noi i nastri rossi si tagliano a Natale quando si aprono i regali. Al di là della Manica quella del taglio del nastro rosso è un’ossessione che domina il dibattito pubblico, raggiungendo il parossismo quando si tratta di Unione Europea. Non si tratta naturalmente del nastro delle festività natalizie, ma di red tape, il termine con cui nel Regno Unito ci si usa riferire alla serie apparentemente infinita di lacci e lacciuoli burocratici che impediscono agli animal spirits del mercato di dar libero sfogo al loro istinto creativo. L’uso del termine red tape nasce dal fatto che in passato la documentazione legale veniva fascicolata proprio con un nastro rosso. Si narra, per esempio, che nel XVI secolo, quando Enrico VIII inviò a papa Clemente VII con un’ottantina di richieste di annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona, la documentazione fosse stata raccolta e rilegata con un nastro rosso. Ancora oggi gli avvocati hanno la tradizione di rilegare il loro atti con un nastro di colore rosa chiamato appunto red tape.

Per i fautori della Brexit il red tape è il peccato capitale dell’Unione Europea: una regolamentazione eccessiva e una rigida conformità a regole formali, considerate ridondanti e spesso fine a sé stesse, che ostacolano l’azione e il processo decisionale in ambito economico e non solo. Non a caso, durante la campagna referendaria per l’uscita dall’Unione Europea, la Brexit è stata presentata agli elettori come un’occasione irripetibile di alimentare con un falò di nastri rossi la crescita dell’economia britannica.

Quale migliore occasione allora per un settore come quello finanziario, in cui gli animal spirits sono di casa? Probabilmente nessuna e questa estate gli spiriti animali si sono messi a lavorare alacremente, in molti casi rinunciando alle vacanze, soprattutto nei piani alti della City. Purtroppo però quello che li sta impegnando non sembra tanto l’agognato falò, quanto un groviglio di nuovi nastri rossi. L’annullamento delle ferie estive è infatti dovuto al carico di lavoro generato da una serie di riforme progettate dal governo britannico per garantire che la City resti un importante polo finanziario globale anche dopo il divorzio da Bruxelles.

Le riforme sono state spiegate a metà giugno, risultato del lavoro di una task force governativa guidata dall’ex leader conservatore Iain Duncan-Smith. Il rapporto della task force contiene cento raccomandazioni. Di particolare rilevanza per la City, c’è quella di rivedere il regime delle commissioni favorendo gli investimento dei fondi pensionistici in fondi di private equity e venture capital a sostegno di start-up innovative. Nel rapporto si sostiene infatti che il regime attuale ha un effetto distorsivo a vantaggio di investimenti passivi nel mercato azionario e a svantaggio di attività a più alti rendimenti ma con una gestione attiva più costosa. Nel mirino del rapporto ci sono anche: il regime imposto al settore assicurativo dalla direttiva Solvency II dell’Unione Europea, volta a estendere la normativa di Basilea II al settore assicurativo, e la direttiva MiFID II sui mercati degli servizi finanziari, con particolare attenzione ai derivati.

Nella City non tutti sembrano convinti dalla strategia governativa del taglio del nastro rosso come strumento per vincere la competizione con le piazze dell’Europa continentale. Alcuni sottolineano che i mercati finanziari sono per loro natura mercati globali e che hanno quindi bisogno di una regolamentazone condivisa a livello internazionale per funzionare al meglio. In tal senso, la retorica secondo la quale il Regno Unito sarebbe in competizione con l’Unione Europea per la leadership sui mercati finanziari continentali sembra essere più dei politici che degli operatori del settore. Molti di questi preferirebbero discutere come aumentare la dimensione dei mercati e quindi come avere una torta più grande da spartirsi che passare il loro tempo ad adeguarsi a nuove regole che rischiano di ridurre la grandezza della torta. Il rischio percepito è quello della divergenza tra le regole di Londra e quelle di Bruxelles, una divergenza che, allontanando le due sponde della Manica, non farebbe altro che frammentare inutilmente i mercati finanziari europei. È questo il caso dei cosiddetti passporting rights alla base del mercato unico dell’Unione Europea per i servizi finanziari, in virtù dei quali le aziende autorizzate a operare in qualsiasi stato dell’Unione possono muoversi liberamente anche in qualsiasi altro stato membro. Dall’inizio dell’anno le società finanziarie della City hanno perso tali diritti e dipendono dall’assenza di divergenza regolamentare tra Londra e Bruxelles per continuare a operare in un regime agevolato di equivalenza.

Altre perplessità sulla strategia governativa del taglio del nastro rosso nascono dalla constatazione di come si è arrivati al quadro normativo corrente. Chi nella City ha seguito lo svolgimento degli eventi sa che il Regno Unito ha avuto un ruolo fondamentale nel disegnare le attuali regole europee in ambito di servizi finanziari, come nel caso della direttiva MiFID II. Inoltre, non tutto quello che il governo britannico presenta in termini di minor burocrazia, sembra esserlo davvero. Per esempio, se da un lato si propone di rendere più facile la quotazione delle società a Londra, dall’altro si discute anche di riformare il regime di revisione contabile, aumentando di fatto l’onere burocratico per le società quotate.

Ci sono infine una serie di attività che, qualunque sia l’esito in termini di divergenza, difficilmente potranno restare a Londra. È il caso, per esempio, del clearing dei derivati denominati in euro, un’attività dominata dalle clearinghouse londinesi. Che l’euroclearing si sposti sul continente, o quanto meno sia regolato dalle norme europee, è un esito naturale dal momento che è la BCE a doversi fare carico del rischio di eventuale insolvenza da parte delle banche coinvolte.

Quale sarà dunque il futuro della City? Un’interessante prospettiva è stata offerta a maggio da Howard Davies, presidente di NatWest, una delle più importanti istituzioni bancarie britanniche, e in passato vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, presidente della Financial Services Authority e direttore della London School of Economics. Secondo Davies, nonostante per la Brexit la City sia stata in larga parte tagliata fuori dai mercati dell’Unione Europea e abbia poche illusioni di poter riguadagnare un facile accesso in tempi brevi, il futuro di Londra come centro finanziario globale sembra comunque assicurato. Tuttavia, sebbene la City rimarrà il mercato finanziario più grande d’Europa, la sua «età dell’oro» può considerarsi finita.

Detto questo, finora il dibattito sul futuro della City è sembrato troppo spesso un dialogo tra sordi, tra i sostenitori della Brexit, convinti che nulla cambierà rispetto al passato, e i loro oppositori, per i quali la City avrà un futuro stentato. Ostacolando l’eventuale riallocazione del personale dal Regno Unito ai paesi dell’Unione Europea, la pandemia rende più difficile valutare le tendenze in atto. Se è vero che gli scambi di azioni e swap denominati in euro si sono spostati sul continente, ci vorrà nondimeno tempo prima di vedere emergere sul continente un vero centro finanziario rivale.

Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies. Scrive sul Sole 24 Ore e su lavoce.info. Per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle due testate.

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