Economia & Mercati

07/06/2021 Gianmarco Ottaviano

G7: il grande passo avanti sulla fiscalità globale delle multinazionali

Secondo alcune stime, la mancanza di coordinamento globale sulle aliquote di tassazione dei profitti delle società multinazionali sottrae alle casse degli Stati circa 240 miliardi di dollari all’anno. Questo va a scapito della spesa pubblica per consumo e investimento, così importante per le politiche di rilancio dei vari Paesi in tempi di pandemia. L’accordo raggiunto dal G7 di Londra su un’aliquota minima comune e su una distribuzione più equa dei profitti delle multinazionali rappresenta una svolta potenzialmente epocale.

Un «grande passo avanti... verso un inedito accordo globale sulla riforma fiscale». Così il commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni ha commentato l’accordo raggiunto a Londra in occasione dell’ultimo incontro dei ministri delle finanze del G7, cioè il gruppo di sette grandi Paesi formato da Canada, Francia, Germania. Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, incontro nel quale Gentiloni rappresentava l’Unione Europea. Scopo dell’accordo è combattere tutti insieme un certo tipo di elusione fiscale a livello internazionale, che, secondo alcune stime, sottrae alle casse degli Stati circa 240 miliardi di dollari all’anno, in questo momento anche a scapito della spesa pubblica per consumo e investimento così importante per le politiche di rilancio dei vari Paesi in tempi di pandemia.

I pilastri dell’accordo di Londra sono due. Il primo cerca di porre rimedio al crescente scollamento tra le aree geografiche in cui le società multinazionali generano profitti e quelle in cui dichiarano tali profitti – e quindi pagano le relative tasse. Nel caso degli Stati Uniti, per esempio, dall’inizio del secolo la quota di profitti dichiarati dalle multinazionali americane nei paradisi fiscali è raddoppiata, superando il 60 per cento nel 2018, paradisi fiscali in cui tali multinazionali hanno soltanto il 5 per cento della loro forza lavoro. In riferimento a società con un margine di profitto minimo del 10 per cento sui ricavi globali, l’accordo prescrive che un quinto dei profitti in eccesso rispetto a tale soglia e il relativo diritto di tassarli potrebbero essere distribuiti tra i Paesi in cui le multinazionali operano in base ai ricavi generati localmente.

Il secondo pilastro dell’accordo vuole ridurre l’incentivo che i Paesi hanno ad abbassare in modo competitivo le loro aliquote d’imposta sui profitti per attirare le multinazionali e i relativi posti di lavoro. A causa di questa competizione verso il basso, nel corso degli anni molti Paesi hanno progressivamente ridotto la pressione fiscale sulle società. Negli ultimi decenni, in particolare, l’aliquota media globale per le società è scesa dal 49 per cento nel 1985 al 24 per cento nel 2018. Secondo KPMG, oggi nell’Unione Europea l’aliquota media è di circa il 20 per cento, con una certa variabilità: in Italia siamo a circa il 25 per cento, in Irlanda al 12,5 per cento. L’accordo di Londra prevede che i Paesi non possano scendere al di sotto di un’aliquota minima comune del 15 per cento, un impegno rilevante soprattutto per Paesi ad aliquota bassa come l’Irlanda.

Un semplice esempio può aiutare a capire quali sono i problemi che l’accordo di Londra cerca di risolvere. Prendiamo il caso di una multinazionale con casa madre in Irlanda e una filiale in Italia. La casa madre produce motori in Irlanda, che vengono poi esportati e venduti nel mercato italiano dalla sua filiale. Il costo di produzione di un motore per la casa madre è di 500 euro, quello di distribuzione per la filiale è di 100 euro, a fronte di un ricavo dalla vendita finale di 800 euro. Il profitto dell’operazione è di 200 euro (cioè 800 euro di ricavo meno 500 euro di costo di produzione e 100 euro di costo di distribuzione). Se questo profitto rimane in capo alla filiale, viene dichiarato in Italia e comporta il pagamento di un’imposta di 50 euro (cioè 200 euro per 25 per cento di aliquota italiana). Se invece è imputato alla casa madre irlandese, il pagamento si dimezza a 25 euro (cioè 200 euro per 12,5 per cento di aliquota irlandese).

Che cosa determina il Paese in cui il profitto viene dichiarato? Dipende da quanto la casa madre fa pagare il motore alla sua filiale, cioè dalla scelta di quello che viene chiamato il «prezzo di trasferimento» (transfer pricing). Se la casa madre trasferisce la proprietà del motore alla filiale a un prezzo equivalente al costo di produzione di 500 euro, la filiale mette a bilancio l’intero profitto di 200 euro. Se invece il prezzo di trasferimento viene fissato a 700 euro, alla filiale non resta nulla dopo aver pagato il costo di distribuzione: tutto il profitto va alla casa madre. Nel primo scenario, il profitto generato in Italia è tassato in Italia: la multinazionale contribuisce 50 euro di tasse alle casse dello Stato italiano. Nel secondo scenario, il profitto generato in Italia è tassato in Irlanda: la multinazionale contribuisce 25 euro di tasse alle casse dello Stato irlandese. Nel primo scenario, lo Stato italiano è ovviamente più contento. Nel secondo scenario, sono più contenti sia la multinazionale sia lo Stato irlandese.

In sintesi, decidendo il prezzo di trasferimento in modo strategico, la multinazionale riesce a spostare il profitto (effettuando il cosiddetto profit shifting) dal Paese con l’aliquota più alta a quello con l’aliquota più bassa. In tal modo riesce a pagare meno tasse, con l’effetto collaterale di aumentare il gettito fiscale del secondo Paese a danno del primo. Questo però incentiva il Paese con l’aliquota più alta a riverderla verso il basso, innescando un potenziale circolo vizioso di competizione al ribasso sulle aliquote tra i due Paesi, dal momento che poco gettito è sempre meglio di nessun gettito. Lo scopo del secondo pilastro dell’accordo di Londra è proprio quello di porre un limite inferiore a questa corsa al ribasso. Lo scopo del primo pilastro è invece quello di rendere a monte più difficoltosa la pratica di profit shifting.

Nonostante la logica dell’accordo di Londra sia chiara, ci si potrebbe chiedere a quanto serva il primo pilastro data la normativa già esistente sul transfer pricing. Questa infatti impone già che il prezzo di trasferimento tra casa madre e filiale debba essere congruo, cioè in linea con il prezzo di mercato che la casa madre farebbe a una società non affiliata per la stessa transazione. La risposta a tale domanda è che la smaterializzazione dell’economia pone sfide che la regolamentazione tradizionale del prezzo di trasferimento fa fatica ad affrontare. La ragione è infatti che, per una cessione intangibile, come quella della licenza di utilizzo di un brand, di un algoritmo o della composizione di un farmaco, la determinazione del prezzo congruo è più complicara che per una cessione tangibile, come quella di un motore. Per questa ragione, in un’economia smaterializzata, imporre alle multinazionali di pagare le tasse dove vengono generati i loro ricavi, invece di farlo dove vengono dichiarati i loro profitti, può essere molto più efficace che investigare l’alchimia dei loro prezzi di trasferimento per le cessioni intangibili.

Al di là del profit shifting e della competizione fiscale al ribasso, per molti c’è però almeno un altro motivo per riformare la fiscalità globale in tema di tasse sui profitti d’impresa. Si tratta di una ragione di equità. Poichè sono principalmente le imprese multinazionali a poter ridurre i loro oneri fiscali attraverso il profit shifting, il risultato è che tali imprese riescono a ottenere un vantaggio competitivo artificiale rispetto ai loro concorrenti nazionali. Si tratta di un vantaggio artificiale perchè non nasce dal fatto che tali multinazionali siano più efficienti nell’offrire beni e servizi, ma dal fatto che possono permettersi le consulenze legali necessarie a navigare le complessità della fiscalità internazionale. Inoltre, poichè sono gli azionisti delle imprese multinazionali a beneficiare della riduzione strategica dei loro oneri fiscali, il profit shifting avvantaggia soltanto coloro che hanno risorse finanziare sufficienti a partecipare (direttamente o indirettamente) al capitale sociale di tali imprese.

Le parole di Paolo Gentiloni non possono non ricordare quelle di Neil Armstrong nel compiere il primo passo sulla Luna: «Questo è un piccolo passo per [un] uomo, ma un gigantesco passo per l’umanità». Già a partire dal G20 di Venezia a luglio, il tempo ci dirà se sarà vero anche questa volta.

 

Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies. Scrive sul Sole 24 Ore e su lavoce.info. Per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle due testate.

 

Fiscalità