Economia & Mercati

15/02/2021 Gianmarco Ottaviano

Dopo la Brexit: una strada (ancora) lunga e tortuosa

Il 31 dicembre 2020 si è concluso il percorso che ha portato all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Si è trattato di un percorso lungo e tortuoso, il cui compimento non segna però la fine del processo di disintegrazione economica e finanziaria del Regno dall’Unione, ma, al contrario, soltanto il suo inizio. La ragione è che il Brexit Deal, l’accordo in cui è culminata la Brexit, lascia molte questioni irrisolte, sulle quali le controparti continueranno a confrontarsi negli anni a venire.

Il percorso lungo e tortuoso («The long and winding road», direbbero i Beatles) del divorzio del Regno dall’UE è stato imboccato più di quattro anni fa e le sue tappe principali sono sintetizzate in un documento scaricabile dal sito della Biblioteca della Camera dei comuni[1]. In un referendum tenutosi il 23 giugno 2016, la maggioranza dei votanti ha scelto di lasciare l’Unione Europea. Il 29 marzo 2017, in una lettera al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, il primo ministro conservatore Theresa May ha formalmente attivato l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea (TEU), che permette a ogni Stato membro di ritirarsi dall’Unione. L’attivazione dell’articolo 50 ha avviato un conto alla rovescia di due anni per l’uscita ufficiale del Regno Unito dall’UE (ribattezzata fin da subito «Brexit»).

L’idea iniziale era, infatti, che il Regno Unito avrebbe lasciato l’Unione europea alle ore 23.00 del 29 marzo 2019. Tuttavia, a seguito di un voto della Camera dei comuni il 14 marzo 2019, il governo britannico ha chiesto all’UE di estendere l’articolo 50 per poter concordare una data successiva per la Brexit. Il 20 marzo 2019 Theresa May ha scritto al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, chiedendo di prorogare l’articolo 50 fino al 30 giugno 2019. A seguito di una riunione del Consiglio europeo il giorno successivo, i leader degli altri Stati membri (i cosiddetti «EU-27») hanno deciso di concedere la proroga. Il 2 aprile 2019, Theresa May ha annunciato che avrebbe cercato di ottenere un’ulteriore estensione e si è offerta di incontrare il leader dell’opposizione laburista per trovare un accordo che potesse ottenere il sostegno del parlamento. In una riunione del Consiglio europeo del 10 aprile 2019, il Regno Unito e gli EU-27 hanno convenuto di prorogare l’articolo 50 fino al 31 ottobre 2019.

Nel frattempo, però, il 24 luglio 2019 Theresa May viene costretta a cedere la poltrona di primo ministro al collega di partito Boris Johnson, che il 28 ottobre 2019 ottiene dall’UE un’ulteriore, ma questa volta definitiva proroga della Brexit al 31 gennaio 2020. Il 12 dicembre 2019, il partito conservatore ottiene nuovamente la maggioranza alle elezioni parlamentari e Boris Johnson, confermato primo ministro, ribadisce il suo impegno a portare a termine la Brexit («get Brexit done») entro il 31 gennaio 2020. Il 23 gennaio 2020, la legge 2020 sull’Unione europea («Withdrawal Agreement») riceve il consenso della regina. È sulla base di questo atto legislativo che avviene dopo pochi giorni il divorzio tra Regno Unito e Unione Europea.

Alle 23:00 del 31 gennaio 2020, il Regno Unito lascia l’UE ed entra in un periodo di transizione, di poco inferiore all’anno, caratterizzato da faticose e tormentate negoziazioni volte a definire concretamente i termini del divorzio, in un momento in cui, a causa della pandemia da Covid-19, i governi di tutti Paesi coinvolti hanno tuttavia altre priorità. Ciononostante, anche se sul filo di lana, il negoziato produce i suoi risultati in termini di un accordo, detto «Brexit Deal», che mette ordine nei futuri rapporti tra le due parti scongiurando un ben più traumatico «No Deal». Alle 23:00 del 31 dicembre 2020, il periodo di transizione termina. Il Regno Unito lascia il mercato unico dell’UE e la relativa unione doganale.

L’abbandono dell’unione doganale permette a Londra di poter perseguire una propria politica commerciale indipendente, senza doversi più attenere agli accordi commerciali siglati dall’UE con i suoi partner globali. Questa indipendenza ha però un costo, legato a un accesso molto più difficoltoso per i britannici ai vicini mercati dell’Europa continentale. Non è una difficoltà di poco contro dal momento che l’UE, considerata nel suo insieme, è il principale partner commerciale del Regno Unito. Nel 2019, le esportazioni del Regno Unito verso l’UE sono state il 43 per cento di tutte le sue esportazioni, mentre le importazioni del Regno Unito dall’UE sono state il 52 per cento di tutte le sue importazioni. Anche se la quota delle esportazioni britanniche imputabile all’UE è diminuita nel tempo (dal 54 per cento nel 2002 al 43 per cento nel 2019), la Brexit non potrà che creare grattacapi per quasi la metà del fatturato degli esportatori britannici.

Di che tipo di difficoltà stiamo parlando? Un’efficace sintesi si può trovare in una recente analisi pubblicata da Bloomberg[2]. Al di là di questa sintesi, chi fosse interessato ai dettagli del Brexit Deal può leggersi le sue 1246 pagine, armandosi di una buona dose di determinazione e di numerose tazze di tè[3].

Come naturale, date l’intensità e la complessità dei rapporti economici intessuti per decenni tra il Regno Unito e gli altri membri dell’Unione Europea, il Brexit Deal copre molteplici aspetti, tra i quali gli scambi di merci, i servizi finanziari, le regole di concorrenza leale («level playing field»), la risoluzione delle controversie, le procedure doganali, aviazione e autotrasporti, i flussi di dati, l’energia, i servizi professionali, i viaggi di lavoro, la fiscalità, agricoltura e pesca. Soffermiamoci in modo selettivo su alcuni aspetti di generale rilevanza per imprese e società finanziarie.

Per quanto riguarda il commercio di beni, l’accordo garantisce che la maggior parte delle merci scambiate tra l’UE e il Regno Unito non verrà colpita da nuovi dazi o restrizioni quantitative. Tuttavia, gli esportatori britannici dovranno affrontare una serie di ostacoli normativi o barriere non tariffarie, che renderanno più costoso e gravoso fare affari in Europa. La questione più spinosa riguarda le cosiddette «regole di origine», in base alle quali le aziende del Regno Unito dovranno certificare l’origine locale delle loro esportazioni perché queste possano qualificarsi per l’accesso senza dazi al mercato unico dell’UE. In particolare, ci saranno limiti sulla proporzione minima di valore aggiunto britannico, che deve essere contenuto nelle merci assemblate a partire da componenti estere, affinché tali merci possano evitare i dazi dell’UE. In questo calcolo il valore aggiunto europeo conterà come britannico, dando sollievo a quei settori che, operando tramite catene del valore, prevedono un processo produttivo frammentato tra vari Paesi europei.

Un esempio in tal senso è il settore automobilistico per il quale sono previste regole speciali. I veicoli a benzina o diesel dovranno essere realizzati con almeno il 55 per cento di contenuto locale per sfuggire ai dazi. Per favorire la transizione ecologica, i veicoli elettrici e ibridi potranno però contenere fino al 60 per cento di valore aggiunto estero, ma tale percentuale dovrà scendere al 55 per cento entro il 2026. Le batterie potranno contenere il 70 per cento di valore aggiunto estero, ma dovranno diminuirlo nello stesso periodo di tempo fino al 50 per cento. Ulteriori restrizioni scaturiranno dalle procedure di controllo e certificazione, nella misura in cui l’assenza di un accordo di riconoscimento reciproco automatico implica che gli organismi di regolamentazione del Regno Unito non saranno in grado di certificare i prodotti per la vendita nell’UE e viceversa, un grande ostacolo potenziale al commercio internazionale.

Per controllare il rispetto delle regole d’origine sulle merci in transito, sono stati introdotti controlli doganali ai confini tra Regno Unito e UE, anche se con l’impegno congiunto di seguire le migliori pratiche internazionali e di ridurre nel tempo il relativo onere burocratico. Tuttavia, per evitare che la reintroduzione di un confine sorvegliato tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda potesse provocare un ritorno agli scontri violenti del passato tra i sostenitori dell’unificazione irlandese e quelli della lealtà al Regno Unito, il confine doganale tra questo e l’UE è stato posto tra l’isola di Irlanda e quella della Gran Bretagna, cioè all’interno del Regno stesso. Controlli doganali interni di questo tipo si trovano di solito solo in Paesi in via di sviluppo.

Ma se il Brexit Deal tutela almeno partialmente gli scambi bilaterali di merci, non fa nulla di simile per i flussi di servizi finanziari, L’accordo offre infatti poche certezze alle società finanziarie. L’accordo contiene solo disposizioni standard sui servizi finanziari, il che significa che non include alcun impegno sull’accesso al mercato unico. Non vi è alcuna decisione sulla cosiddetta «equivalenza», che consentirebbe alle società di vendere i propri servizi nel mercato unico dalla city di Londra. Il Regno Unito e l’UE discuteranno come procedere su specifiche decisioni di equivalenza, ma la Commissione europea ha affermato di aver bisogno di maggiori informazioni dal Regno Unito per poter procedere e al momento non prevede di adottare nuove decisioni di equivalenza. Maggiori impegni sono stati presi in tema di coordinamento normativo, in virtù di una dichiarazione comune a sostegno di una cooperazione rafforzata in materia di controllo dei mercati. Un memorandum d’intesa potrebbe essere concordato già entro marzo 2021.

La convergenza su regole comuni di concorrenza leale («level playing field») è stata una delle questioni più complicate dei negoziati. Entrambe le parti si sono impegnate a mantenere i propri standard di trasparenza ambientale, sociale, fiscale e di difesa dei diritti dei lavoratori, al fine di evitare un’eventuale competizione al ribasso nel tentativo di promuovere la competitività delle proprie imprese e società finanziarie. Diversamente da quanto inizialmente richiesto dall’UE, nel Brexit Deal non sono state inserite clausole di salvaguardia, che avrebbero di fatto costretto il Regno Unito ad adeguare i suoi standard all’evoluzione di quelli dell’UE. C’è invece un meccanismo di riequilibrio, attraverso il quale una parte potrà imporre dazi sulle importazioni dalla controparte nel caso in cui gli standard di quest’ultima divergessero troppo in senso meno restrittivo. Tali misure dovranno però essere limitate per portata e durata a quanto strettamente necessario e proporzionato per porre rimedio alla situazione. Eventuali misure ritorsive saranno inoltre soggette ad arbitrato da parte di un collegio indipendente e non da parte della Corte di giustizia europea come auspicato dall’UE.

Sempre in ambito di concorrenza leale, le due parti si impegnano a non usare i soldi pubblici in modo surrettizio per dare un vantaggio alle proprie imprese e alle proprie società finanziarie. A entrambe le parti viene impedito di fornire una garanzia statale illimitata per coprire i debiti o le passività di imprese e società. Mantenendosi in linea col diritto comunitario, il Regno Unito non potrà salvare un’impresa in fallimento senza un piano di ristrutturazione e qualsiasi aiuto alle banche in dissesto dovrà attenersi al minimo necessario per ottenerne un’ordinata liquidazione. Inoltre, Regno Unito e UE dovranno rendere pubblici in modo trasparente tutti i sussidi che decidono di concedere.

Molte questioni restano dunque aperte e nuove questioni inattesse probabilmente faranno la loro apparizione. Come cantavano i Beatles, «la strada lunga e tortuosa che conduce alla tua porta non scomparirà mai. Ho già visto quella strada. Mi porta sempre qui» ... al tavolo negoziale.

 

Gianmarco Ottaviano è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Achille and Giulia Boroli Chair in European Studies. Scrive sul Sole 24 Ore e su lavoce.info. Per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle due testate.

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