Economia & Mercati

07/01/2021 Donato Masciandaro

Inflazione: un funerale prematuro?

È tempo di celebrare il funerale dell’inflazione? Su questa domanda i falchi e le colombe hanno già iniziato a beccarsi. Ed è facile prevedere che lo faranno sempre di più, soprattutto se la politica monetaria, negli Stati Uniti come in Europa, manterrà il suo atteggiamento ultraespansivo. Chi ha ragione? E per chi tifano i mercati finanziari?

È arrivato il momento di celebrare il funerale dell’inflazione e pensare che politica monetaria e fiscale debbano occuparsi esclusivamente di crescita economica e occupazione? Il dibattito non solo è in corso, ma è anche accesso: da un lato le colombe, già pronte con il requiem; dall’altro lato i falchi, pronti a giurare sulla risurrezione. Quale sono le ragioni delle une e degli altri? Proviamo a partire da quello che sappiamo.

L’analisi economica ci dice che in generale una recessione pandemica può avere sia effetti deflattivi sia inflattivi. Infatti tutto nasce da uno shock non economico, in cui l’evento imprevedibile (lo scoppio della pandemia) si intreccia con la reazione delle politiche pubbliche per la salute (l’imposizione del distanziamento sociale). Il mix tra malattia e politiche sanitarie finisce così per colpire contemporaneamente sia l’offerta sia la domanda aggregata. Dal lato dell’offerta, la capacità delle imprese di produrre beni e servizi viene minata dal rischio sanitario che può colpire i lavoratori, nonché da quello legato a blocchi e ritardi negli scambi e negli approvvigionamenti. In sintesi, lo shock pandemico sull’offerta è assimilabile a un innalzamento dei costi, che si riflette in una caduta della produzione e in un irrigidimento dei prezzi verso l’alto. Quindi, dicono i falchi, una recessione pandemica spinge tendenzialmente, anche se non immediatamente, i prezzi verso l’alto. Niente affatto, ribattono le colombe. Dal lato della domanda, lo shock pandemico riduce sia la capacità sia la voglia delle famiglie e delle imprese di consumare e investire; di riflesso, l’effetto sui prezzi è invece quello di spingerli verso il basso. Chi ha ragione? Guardiamo i dati, si risponde di solito.

Ma stavolta guardare i dati non serve a chiudere la disputa, perché l’evidenza empirica storicamente disponibile dà risultati opposti: lavori empirici sull’influenza spagnola del 1918-1920 associano alla pandemia fenomeni inflattivi, mentre le analisi della recessione pandemica in corso mostrano l’esatto contrario. Non c’è da meravigliarsi: la recessione pandemica ha anche ulteriori caratteri che stanno rendendo i suoi effetti macroeconomici particolarmente imprevedibili. Un tratto è appunto quello dell’incertezza.

Anche l’effetto dell’incertezza sulla dinamica dei prezzi è però ambiguo. Quando aumenta l’incertezza, in generale le imprese vorrebbero difendere i propri margini di redditività, perché ciascuna impresa si aspetta che tutte le altre faranno lo stesso. Ma a sua volta la capacità di ogni impresa di difendere i propri margini dipenderà dal suo potere di mercato, sia come venditore di prodotti sia come acquirente di materie prime o di input intermedi. Più l’impresa agisce in mercati competitivi, meno riuscirà a traslare il costo dell’incertezza sui consumatori, o sui fornitori. E poi: l’incertezza è misurabile, ancorché in termini probabilistici – come sarebbero portati a sostenere i falchi – oppure è invece assolutamente imprevedibile – in una prospettiva più comune tra le colombe?

E poi c’è il canale delle aspettative: attese di rialzi o ribassi dei prezzi di domani di per sè influenzano i prezzi di oggi. Ma se il tratto dominante della recessione pandemica è appunto la sua natura speciale e il tratto dell’incertezza, allora anche il meccanismo delle aspettative rischia di diventare un catalizzatore di ambiguità, non certo un’ancora di certezze. Infine, falchi e colombe si accapigliano sull’effetto che le politiche ultraespansive avranno sui prezzi. I falchi mettono in fila numeri come i seguenti. Prendiamo gli Stati Uniti. Da febbraio a settembre, la FED ha fatto crescere lo stock di dollari di quasi il 42 per cento. Finora l’aumento della moneta non si è riflesso sui prezzi perché l’incertezza fa crescere l’avversione al rischio di famiglie, imprese e banche; l’aumento complessivo della liquidità è stato meno della metà, fermandosi al 21 per cento. Ma l’assenza di fiammate inflazionistiche è solo temporanea. Appena la recessione pandemica sarà finita, il rischio inflazione si impennerà. Altro che funerale dell’inflazione. 

Ma anche in questo caso le colombe non ci stanno, offrendo altri dati. Si torna indietro a quello che è successo nella relazione tra politica monetaria e inflazione durante la Grande crisi finanziaria del 2008. Tra il settembre 2008 e il gennaio 2009 la FED raddoppiò la quantità di dollari esistente, ma l’effetto sulla liquidità complessiva fu ancora più tiepido – aumentò appena del 4 per cento – come quello sull’inflazione. Sul rischio inflazione si può dunque recitare il de profundis.

Anche se si allunga l’orizzonte temporale – introducendo i temi delle tendenze demografiche, come pure del futuro della globalizzazione – la contrapposizione non sembra affatto attenuarsi. Per non parlare del ruolo della politica fiscale. In questo perimetro la grande novità arriva dagli Stati Uniti, con la nomina di Janet Yellen al Tesoro, a cui si accompagna l’ipotesi di una politica fiscale aggressiva. Come si schierano i falchi e le colombe su questo argomento? La risposta dipende da quale legame ci si aspetta possa esistere tra una politica fiscale aggressiva e gli effetti sulla dinamica dell’inflazione, partendo dal presupposto che la politica monetaria della FED continuerà a essere espansiva almeno per tutto il 2021, tassi di interesse inclusi.

Anche in questo caso, falchi e colombe la pensano in maniera opposta. Per le colombe una politica fiscale aggressiva avrebbe sicuramente effetti espansivi sul reddito degli americani, anche attraverso l’aumento del debito pubblico. Infatti i canali di trasmissione dell’espansione economica potrebbero essere due. Da un lato un aumento netto della spesa pubblica farebbe crescere gli incentivi per le famiglie e le imprese ad aumentare consumi e investimenti, con il relativo effetto leva per crescita economica. In parallelo, anche un aumento del debito pubblico, se percepito come un aumento della ricchezza privata, andrebbe nella medesima direzione. L’effetto sull’inflazione sarebbe invece sostanzialmente trascurabile, se non ci saranno cambiamenti strutturali in come sono organizzate la produzione dei beni e dei servizi, nonché i mercati del lavoro. Finora tali fattori hanno compresso la dinamica dei prezzi al consumo. Le colombe supportano l’idea che il mix tra una aggressiva Yellen al Tesoro e un accomodante Powell alla FED porterà a una crescita senza inflazione anche sulla base di quello che è successo negli Stati Uniti dopo il 2008.

Il tandem tra politica fiscale e monetaria fu all’epoca molto espansivo. Le decisioni dell Presidente Obama – appoggiate dal Congresso – tra l’ottobre del 2008 e il gennaio 2009 furono pari a oltre il 10 per cento del PIL americano, con una crescita del debito pari al 91 per cento; fu la più grande espansione fiscale in tempi di pace dalla Grande depressione degli anni Trenta. Simmetricamente – come abbiamo sopra ricordato – la FED fece crescere esponenzialmente la creazione di moneta, di oltre il 100 pe rcento. Alla fine, se si guardano i dati complessivi tra il 2010 ed il 2019, l’aumento della crescita economica è stato del 2,25 percento, mentre quello dell’inflazione del 1,75 percento. Quindi: crescita economica soddisfacente, senza fiammata inflazionistica.

I falchi scuotono la testa, sulla base di un argomento principale, anche se non unico: una politica fiscale aggressiva, che si traduce in un aumento sistematico del deficit e del debito americano, produce bolle nei prezzi. Possono essere i prezzi al consumo, ma anche i prezzi delle attività finanziaria, o i prezzi delle case, o un combinato disposto dei tre possibili focolai. Naturalmente, non è detto che le bolle si palesino immediatamente. In particolare, in situazioni in cui l’incertezza accentua l’avversione al rischio di famiglie, imprese e banche, il rischio bolla rimane latente, finché migliori prospettive economiche non fanno partire consumo, credito e investimento, con effetti appunto imprevedibili sui tre tipi di prezzi. I falchi, guardando gli stessi dati degli anni post 2008, notano che le colombe raccontano la storia a metà: l’aumentata avversione al rischio non ha mai fatto crescere la moneta e il credito, e quindi la domanda aggregata, alla stessa velocità con cui la FED provava a iniettarla nel sistema. Il credito totale è ritornano ai livelli pre crisi solo nel 2014; quello al consumo solo nel 2016. Il rischio bolle è tuttora latente.

Una stima coerente con tale approccio ipotizza una crescita inflazione oltre il 5 per cento entro il 2022. Anche perché è la stessa FED che, modificando il suo modus operandi nella politica monetaria, sta contribuendo nei fatti a mantenere le braci della bolla sotto la cenere. In particolare i falchi puntano il dito sulla riforma con cui la FED ha deciso dal 2008 di remunerare i depositi che le banche hanno presso la banca centrale. Di riflesso, le riserve in eccesso delle banche sono aumentate enormemente, il rischio bolla incluso. Dunque una Yellen colomba fiscale, a braccetto con un Powell colomba monetaria, sono per i falchi un vero detonatore.

Tra falchi e colombe, oggi i mercati finanziari non hanno dubbi: sono assolutamente dalla parte delle colombe, e tifano per una Yellen colomba che disegni un whatever it takes fiscale. Certo c’è ancora l’incognita del Congresso, ma il tifo rimane.

Il dibattito sul rapporto tra politica monetaria e fiscale non è meno accesso in Europa. Il messaggio della BCE per i prossimi mesi è molto esplicito: la politica monetaria continuerà a essere straordinaria finché ce ne sarà bisogno. Ma è un messaggio che poggia la sua credibilità su due presupposti. Per un verso, che la banca centrale possa disegnare e implementare la politica monetaria in modo independente. Per un altro verso, che le politiche fiscali – europea e nazionali – siano all’altezza. Che i due pilastri siano indispensabili risulta evidente dal modello di analisi che è emerso finora dalle parole della BCE. La recessione pandemica appare un mix tra due tipi diversi di congiuntura sfavorevole. Da un lato, l’andamento macroeconomico ha seguito una dinamica coerente con la cosiddetta recessione «a V»: uno shock non economico ha provocato e provoca effetti economici negativi sui comportamenti di famiglie e imprese, che sono molto gravi e rilevanti. Allo stesso tempo, però, tali effetti è tanto più probabile che siano temporanei quanto più la soluzione sanitaria –  in particolare i vaccini – si dimostrerà efficace e duratura.  

In una recessione «a V» il compito della politica economica è chiaro: occorre fare tutto quello che è necessario per ridurre la dimensione e la profondità della «V». Per la BCE significa assicurare che i meccanismi di trasmissione della liquidità continuino a funzionare in modo sistematico e regolare. Quindi la politica monetaria deve avere la massima flessibilità, in modo da garantire che gli effetti positivi dell’azione monetaria siano il più omogenei possibili. Allo stesso tempo, però, la crisi pandemica mostra i tratti di una recessione «K»: non tutte le imprese, come non tutti i settori, come non tutte le famiglie, subiscono in modo uguale i costi della fase recessiva. Ci sono vincitori e vinti, cioè ci sono effetti redistributivi che innescano, o accentuano le diseguaglianze. La politica monetaria non può tener conto degli effetti distributivi, perché la politica redistributiva è il legittimo perimetro dei governi in carica. Se la politica monetaria diventa redistributiva, non c’è alcuna ragione per cui debba essere delegata alla BCE, cioè a una burocrazia indipendente.

Qui entra in gioco la politica fiscale: è responsabilità di Bruxelles e delle cancellerie nazionali affrontare i rischi economici – e di riflesso sociali e politici – che una recessione «K» provoca. Ma se la politica fiscale non si attiva, cresce il pericolo che sulla politica monetaria si assomino compiti e attese che sono al contempo eccessive ed improprie. Di conseguenza, aumenta il rischio che l’azione della BCE possa venir giudicata insufficiente o inefficace. E il paradosso si compie: c’è un tandem, dove un ciclista spinge al massimo, assumendosi anche dei rischi – la politica monetaria – mentre l’altro non pedala – la politica fiscale; ma le critiche colpiscono il ciclista che pedala. Ma se la banca centrale perde credibilità, ci possono essere effetti negativi sulle aspettative di inflazione. E torniamo al punto di partenza. Insomma: la partita dell’inflazione non sembra avere oggi un esito così scontato.

 

Per saperne di più

Blanchard O., 2020, Is There Deflation or Inflation in Our Future?, Vox, April, 24th.

Bordo M.D., Levi M.D., 2020, Do Enlarged Fiscal Deficits Cause Inflation? The Historical Record, Hoover Institution, Economics Working Papers, n.20124.

Brunnermeir M.K., 2020, Inflation and Deflation Pressures after COVID Shock, Princeton University, May, 12th .

Burdekin R.C.K., 2020, The US Money Explosion of 2020, Monetarism and Inflation: Plagued by History?, Modern Economy, forthcoming.

Furman J., Summers L., 2020, A Reconsideration of Fiscal Policy in the Era of Low Interest Rates, Harvard University, mimeograph.

Goodhart C., Pradhan M., 2020, Future Imperfect after Coronavirus, Vox, March, 27th.

Miles D., Scott Andrew, 2020, Will Inflation Make a Comeback after the Crisis Ends?, Vox, April, 4th.

 

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia&Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.

Inflazione 2