Economia & Mercati

07/10/2020 Donato Masciandaro

Pandemia, moneta e debito: le lezioni della Serenissima

L’arrivo di una pandemia porta con sé fenomeni recessivi che i politici devono affrontare subito, anche a costo di implementare politiche monetarie e fiscali molto aggressive e rischiose. Per evitare di esagerare, i politici di oggi dovrebbero imparare da quello che è successo nella Serenissima Repubblica di Venezia a cavallo tra il XVI e il XVII secolo

Le due maggiori banche centrali del mondo – la FED e la BCE – coltivano in questi mesi una speranza comune: che la politica fiscale sia efficace. C’e però una differenza sostanziale: sebbene i due presidenti – Powell e Lagarde – abbiano uno stesso problema, l’effetto Covid, quello americano ne ha uno in più, l’effetto elezioni presidenziali, chiunque sia il vincitore. Il mix tra recessione pandemica, politica e moneta può portare a conseguenze imprevedibili, come insegna la storia della Serenissima Repubblica di Venezia e del suo Banco. Per comprendere innanzitutto perché il caso americano è speciale guardiamo alcuni numeri.

Partiamo dallo sforzo eccezionale che in tutti i Paesi le politiche monetarie stanno compiendo per rispondere con efficacia alla recessione pandemica in questo 2020. Per misurare tale sforzo guardiamo alla crescita degli aggregati monetari. È un indicatore complessivo, perché il suo andamento considera anche i comportamenti delle famiglie, delle imprese e delle banche, ma ha il vantaggio di includere non solo quello che una banca centrale fa, ma anche i suoi effetti più immediati, cioè su quanta moneta vi è in circolazione. Gli ultimi dati disponibilii ci dicono che la crescita monetaria è stata negli Stati Uniti, in Europa, Cina e Regno Unito rispettivamente uguale al 26,7 per cento, 8,9 per cento, 11,4 per cento e 11,3 per cento. Non solo: se si prendono gli ultimi tre mesi, e si annualizzano, la crescita diventa del 71,4 per cento, del 21 per cento, del 10,8 per cento e del 31,8 per cento.

Quindi tutte le banche centrali stanno iniettando massicce doti monetarie nel sistema, ma la FED molto di più. Anche assumendo una prospettiva di più lungo periodo, l’attuale è la crescita monetaria più ampia registrata in tempi di pace: la crescita media nel periodo 1919-2019 è stata del 6,6 per cento. L’inondazione monetaria va seguita con attenzione, perché può produrre tre effetti diversi, tra loro intrecciati, e di segno diverso. Da un verso, può far crescere la produzione, che è un bene. Da un altro verso, però, può far anche crescere troppo i prezzi al consumo, ovvero i prezzi di beni finanziari, ma anche di beni reali, come la casa. L’inflazione al consumo e l’inflazione finanziaria sono fenomeni che possono diventare molto tossici. Finora lo sforzo della FED sembra aver attutito gli effetti reali della recessione pandemica; al contempo, non ha prodotto contraccolpi sui prezzi al consumo, ma ha reso esuberanti – e anche volatili – i mercati finanziari. La FED ha iniettato liquidità in tutti i modi immaginabili, ma il suo presidente Powell – come anche la presidente della BCE Lagarde – sanno che l’effetto della politica monetaria non è decisivo, anzi può essere vanificato se privo di un’azione di politica fiscale efficace. Ecco perché sia Powell che Lagarde, nelle loro comunicazioni pubbliche, premono il piede sull’acceleratore degli inviti ai politici a mettere in atto politiche fiscali incisive.

Sempre continuando a guardare agli Stati Uniti, lo sforzo contro la recessione pandemica c’è stato. Misurandolo in termini di deficit pubblico, i dati del FMI ci dicono che tale deficit passerà, rispetto all’andamento della produzione, dal 5,8 per cento del 2019 al 15,4 per cento del 2020 e sarà ancora al 8,6 per cento nel 2021; nel 2020 il rapporto tra debito pubblico e produzione potrà raggiungere il 131,1 per cento. Ma il caso americano è speciale anche perché negli Stati Uniti ci saranno le elezioni presidenziali, e tutti si aspettano che, chiunque sia il vincitore, si avrà una politica fiscale che continuerà a essere espansiva. In più c’è la recessione pandemica; e il mix tra pandemia, politica e moneta può essere letale. Non sarebbe la prima volta che succede.

Torniamo indietro di qualche secolo e sfogliamo le cronache della Serenissima Repubblica di Venezia. Ci sono analogie assai interessanti. In primo luogo vi è il rapporto tra pandemia, istituzioni e politica. Dal Trecento in poi la Repubblica capisce che c’è un rischio pandemia – la peste – e crea istituzioni per gestirlo, come il Provveditorato alla Salute. Ma poi c’è la politica: dichiarare il rischio pandemia può essere politicamente svantaggioso, perché occorre mettere in atto azioni di contenimento – quarantene incluse – che creano costi economici. Quindi il politico è restio; è successo in questi mesi con Donald Trump e Boris Johnson, ma è accaduto a Venezia durante la peste del 1575. Tra il Provveditorato che dichiara esserci la pandemia, e i medici che affermavano il contrario, i governanti – ma anche il popolo – davano il loro favore ai medici negazionisti, i quali manifestavano la loro ostilità al Provveditorato. Anche perché ai mercati non piacevano le quarantene, di ostacolo ai traffici e alla produzione, fino a far dire che fosse «stato molto maggiore il numero di quelli mancati per disagio che di male contaggioso». Ma se la peste c’era, la politica doveva mettere in atto politiche fiscali espansive – come distribuire viveri e aumentare i salari – anche per evitare che i disagi da quarantena si trasformassero in tumulti: «Aspettarsi ogni sedition et crudele novità». Quindi, per aumentare il consenso il politico è disposto ad accrescere la spesa pubblica a ogni costo, incluso quello di far esplodere il debito pubblico e lo stampar moneta. È quello che accadde a Venezia durante la recessione pandemica del 1629-31, quando carestia e peste colpirono duramente la Serenissiam. Il Banco di Venezia – il corrispondente delle nostre banche centrali – quintuplicò la produzione di moneta. L’effetto finale fu una forte svalutazione, che costrinse il Banco a sospendere la convertibilità della sua moneta.

Ma le lezioni veneziane non finisco qui. Più l’andamento del Covid-19 fa salire l’incertezza macroeconomica, più sale la domanda dei titoli di Stato americani. In parallelo, aumenta l’attesa per l’emissione di obbligazioni dell’Unione Europea. I due fenomeni hanno una radice comune: i mercati hanno fame di titoli senza rischio; sono i cosidetti safe asset.

Cercare i safe asset è un desiderio che parte da lontano: i titoli senza rischio sono il Sacro Graal nell’evoluzione dei mercati finanziari; con le sue luci, ma anche lunghe ombre. Il rendimento sui titoli di stato americani continua a toccare nuovi minimi. Anche con dinamiche inusuali. In agosto, per esempio, all’indomani della notizia che il Tesoro avrebbe aumentato ulteriormente la sua offerta di titoli, il rendimento sui decennali scese. Una reazione inattesa, in tempi normali: se l’offerta di una attività finanziaria aumenta, di solito i suoi prezzi scendono, quindi i rendimenti salgono. Ma questi non sono tempi normali. La spiegazione generale è che esista una domanda insoddisfatta di safe asset, perché c’è il «prezzo della tranquillità», che aumenta quando l’incertezza sale.

Di cosa si tratta? Il safe asset è ciò che non può mancare nel portafoglio di ogni investitore prudente. Per essere più precisi: consideriamo tutte le attività finanziarie che non possono essere utilizzate come moneta, ciascuna di esse può perdere valore per due ragioni: perché sale il livello dei prezzi (rischio inflazione), oppure perché chi la ha emessa non mantiene la sua promessa di pagamento (rischio fallimento). A parità di rischio inflazione, è safe asset quella attività il cui valore nominale futuro è ritenuto certo, perché chi la emette è massimamente credibile. L’investitore, per avere nel suo portafoglio un safe asset, è disposto a pagare «prezzo della tranquillità»: in altri termini, il safe asset offre un rendimento della tranquillità (non monetario) che le altre attività finanziarie non posso offrire. Di conseguenza, il rendimento monetario del safe asset sarà minore di quello di tutte le altre attività finanziarie, che invece riflettono il rischio di insolvenza dei vari emittenti. Il rendimento della tranquillità viene anche definito «della trasparenza»: per investire nel safe asset non occorre avere informazioni o conoscenze particolari, perché appunto il suo valore nominale è ritenuto certo.

Gli Stati Uniti sono solo l’ultimo esempio di una lunga storia di emittenti pubblici che sono riusciti a farsi pagare il prezzo della tranquillità per i propri titoli. Il safe asset è diventato una sorta di Sacro Graal, che di volta in volta viene identificato nel debito di un emittente credibile. L’inizio dei safe asset pubblici è fatto risalire alle emissioni inglesi a cavallo tra il XVII e il XVII secolo. In realtà, prima di quelli inglesi, c’erano proprio i titoli emessi dalla Repubblica Serenissima di Venezia, il cui debito pubblico era considerato un safe asset, prodotto da una città-Stato con i conti in ordine e una classe politica credibile.

Tornando ai nostri giorni, negli ultimi tre decenni la crescita esponenziale di dimensione, complessità e interconnessione dei mercati finanziari ha fatto crescere la domanda di safe asset. Il Sacro Graal serve, perché la sua assenza puoi creare guai seri. È quello che è accaduto negli anni che hanno preceduto la Grande recessione del 2008. Di fronte a una forte domanda di safe asset, e a una offerta limitata da parte del Tesoro americano, il mercato privato ha offerto titoli che sembravano egualmente sicuri, visto che le agenzie di rating assegnavano loro il voto di massima affidabilità, la cosiddetta Tripla A. Sappiamo tutti come è andata a finire. Da quel momento l’offerta di safe asset pubblici è cresciuta, spinta dalla crescita dell’indebitamento del Tesoro americano.

Ma il Sacro Graal ha anche le sue incognite. L’aumento del volume di safe asset nei portafogli degli investitori può aumentare la stabilità finanziaria, purché non sorgano dubbi sulla stabilità dell’emittente. Se però vi è una crisi di fiducia, la riallocazione dei portafogli che ne deriva diventa un catalizzatore di instabilità. È successo in passato, di nuovo proprio nella Repubblica Serenissima. Agli inizi del Settecento il debito della Repubblica era così credibile che nei fatti era utilizzabile come mezzo di pagamento, giacché il Banco di Venezia lo trasformava in moneta. Ma poi arrivò la recessione pandemica prima ricordata. Il debito pubblico veneziano salì di molto e rapidamente. Si incrinò la fiducia che il debito-moneta fosse un safe asset; così partì con la ricerca di un safe asset alternativo: le monete di metallo pregiato. Il Banco di Venezia entrò in crisi, con le conseguenze negative che abbiamo già ricordato.

Cosa sta accadendo nel 2020? Anche oggi una recessione pandemica ha spinto gli Stati Uniti ad aumentare sensibilmente il suo debito pubblico, che è stato e continua a essere assorbito nei portafogli degli investitori. Tale aumento mantiene i tassi schiacciati verso lo zero; un fenomeno che alla lunga è fortemente distorsivo. Ma è possibile una crisi di fiducia? Una crisi istantanea è in realtà già accaduta, proprio lo scorso marzo: i rendimenti sui titoli del Tesoro sono schizzati verso l’alto. L’incertezza pandemica stava spostando gli investitori verso il dollaro, cioè una attività sempre emessa dagli Stati Uniti, ma con in più il vantaggio di essere moneta, e l’asset più facile da smobilitare erano proprio i titoli di Stato. La FED è stata costretta a intervenire, subito e massicciamente: l’inondazione di liquidità ha calmato i mercati.

Si noti che anche il continuo aumento dell’offerta di titoli può essere interpretato come un possibile problema della FED, che dovrà essere pronta a intervenire nel caso la fisionomia dell’offerta di titoli non fosse coerente con la domanda. In parallelo, è salita anche la quotazione dell’oro, altro bene che può divenire un safe asset non finanziario quando l’incertezza aumenta, proprio come è accaduto ai tempi della Serenissima. Morale della favola: il Sacro Graal serve, ma il troppo storpia. Ieri se ne accorse il Banco di Venezia, oggi potrebbe accorgersene la FED. E non solo.

 

Per saperne di più

G. Alfani, M. Percoco, «Plague and long-term development: The lasting effects of the 1629-30 epidemic on the Italian cities», Economic History Review, 72(4), 2019, pp. 1175-1201.

T. Ferreira, S. Shousha, Scarcity of Safe Assets and Global Neutral Interest Rates, Federal Reserve Board, mimeo, 2020.

G. Gorton, «The history and economics of safe assets», Annual Review of Economics, 9, 2017, pp. 547-586.

P.O. Gourinchas, O. Jeanne, Global Safe Assets, Bank For International Settlements, BIS Working Paper Series, n.399, 2012.

D. Masciandaro, «Historical helicopter money in a pandemic recession: The 1630 plague and the bank of Venice», Dipartimento di Economia e Centro Baffi-Carefin, Università Bocconi, mimeo, 2020.

 

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.

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