Economia & Mercati
Banca e Patria, i due volti del nazionalismo finanziario
Nei mesi appena trascorsi, nei Paesi avanzati le banche sono state anello di trasmissione delle politiche urgenti di intervento, disegnate dai governi per sostenere la domanda aggregata di beni e servizi. Il tempo ci dirà quale strategia è stata più efficace. Ma proviamo a guardare avanti. Per farlo, come Giano, concentriamoci su quello che è successo in Italia prima che iniziasse la recessione pandemica. Almeno in due occasioni – la vicenda del Meccanismo europeo di stabilità (MES) e quella della Popolare di Bari – la classe politica italiana è stata posta di fronte a una domanda che certamente si riproporrà anche nei mesi a venire: quale dev’essere il ruolo dello Stato nel sistema bancario? Il quesito non riguarda solo l’Italia, e nel panorama internazionale due sono le visioni che si contrappongono: il nazionalismo liberale e quello sovranista. Poi – trasversale – vi è la ricerca del consenso degli esecutivi politici. Le scelte concrete del governo Conte e del Parlamento ci potrebbero dire dove è collocata oggi la classe politica italiana.
In quasi tutti i Paesi avanzati, a partire dall’inizio della grande crisi del 2008, gli esecutivi nazionali – ancorchè in tempi e modalità diverse – sono dovuti intervenire per evitare il rischio che le cattive condizioni di specifiche banche si trasformassero in una crisi sistemica macroeconomica dei rispettivi sistemi bancari. Inoltre, hanno dovuto decidere l’atteggiamento nazionale nei confronti del disegno delle regole bancarie, soprattutto – ma non solo – nel perimetro dell’Unione Europea. Due visioni, seppur opposte, possono essere individuate pur partendo da un presupposto comune: la stabilità del sistema bancario nazionale è un bene pubblico che la politica ha il dovere di tutelare.
Da un lato vi è il nazionalismo liberale, in cui l’aggettivo «nazionale» si declina solo in termini generali, su un orizzonte di medio-lungo periodo, ed è perseguito utilizzando come strumento l’efficienza. In tale visione, infatti, il decisore politico viene considerato un soggetto che massimizza il bene pubblico, avendo un orizzonte temporale esteso e come strumento la ricerca della competitività in tutti i mercati, incluso quello bancario. Il pilastro del nazionalismo bancario liberale è che un’industria bancaria strutturalmente efficiente e stabile finisce per essere un gioco a somma positiva per il Paese, in quanto crea valore per tutti i soggetti interessati: risparmiatori, azionisti, bancari e banchieri, contribuenti. L’efficienza si misura dalla capacità di creare valore, e ha come presupposto il fatto che nessuno dei soggetti prima ricordati è discriminato, ma neanche privilegiato. Vale cioè il principio di pari opportunità. Se l’economia è aperta, e quindi più Paesi interagiscono tra loro, sono due le principali consequenze di tale prospettiva.
Nel disegno delle regole, al crescere del numero degli esecutivi liberali, la definizione di norme coerenti con l’interesse dei cittadini può essere condivisa anche in sede internazionale: il nazionalismo liberale tende a essere globalista, in quanto i criteri di efficienza, se declinati in termini generali e sistematici, possono essere condivisi. Prendendo come esempio il principio dei vantaggi comparati della specializzazione, la sua applicazione condivisa fa stare meglio tutti i Paesi che lo applicano. Un ulteriore riflesso dell’approccio liberare è che le autorità di regolamentazione e controllo – come le banche centrali – devono essere indipendenti, proprio per garantire una politica bancaria orientata al lungo periodo e basata sulla ricerca dell’efficienza.
Applicando la prospettiva del nazionalismo liberale alla vicenda del MES, la questione allora diventa: come disegnare un meccanismo assicurativo efficiente tra Paesi che possono essere sia assicuratori sia assicurati, tenendo conto delle caratteristiche sia del debito pubblico sia di quello privato, cioè bancario? Riguardo al ruolo dello Stato nei salvataggi bancari, la conseguenza è che l’intervento pubblico deve essere ridotto sotto tutti i punti di vista. In particolare, anche l’eventuale ingresso dello Stato come azionista dev’essere, credibilmente, straordinario nelle modalità, minimizzato negli importi, temporaneo nell’orizzonte temporale. L’esempio di scuola è quello della Svezia, alle prese negli anni Novanta con la gestione della sua crisi bancaria.
La visione liberale e globale è stata messa in crisi dalla grande crisi del 2008, facendo emergere – o meglio riemergere – il nazionalismo sovranista. Un’analisi empirica relativa a 20 Paesi avanzati nel periodo tra il 1870 e il 2014 mostra che le crisi finanziarie tendono a far allontanare gli elettori dai partiti tradizionalmente al potere, favorendo il consenso per le posizioni più estreme. La crisi della visione liberale potrebbe verificarsi anche oggi, se pensiamo per esempio alle critiche che il processo di globalizzazione sta ricevendo.
Nel nazionalismo sovranista l’aggettivo «nazionale» è invece applicato in maniera selettiva e discriminatoria – il soggetto nazionale deve essere privilegiato rispetto al non nazionale – e in ogni situazione, anche congiunturale. Per cui la politica sovranista tende ad avere sia un effetto redistributivo sia un orizzonte di breve periodo. Essendo la natura discriminatoria l’elemento qualificante della politica sovranista, nel perimetro bancario possono essere, a seconda delle situazioni, nazionali i depositanti – o una parte di essi – ma anche gli azionisti, oppure i lavoratori e manager, o l’azienda – cioè la banca – tout court, ovvero gli stessi supervisori. Riguardo a questi ultimi, però, non devono essere indipendenti, dovendo la loro azione essere guidata dal governo in carica, l’unico soggetto che di volta in volta può determinare quali e dove siano gli interessi nazionali da proteggere. Quanto più un governo sovranista intende mettere in atto una politica – inclusa quella bancaria e monetaria – che deve essere redistributiva e di breve periodo, tanto più è probabile che non gradisca le burocrazie indipendenti, incluse le banche centrali. Tra il 2018 e il 2019 in Paesi i cui i governi sono indiziati di sovranismo – Stati Uniti, Italia, India, Turchia – si sono registrati conflitti tra l’esecutivo e la banca centrale. Un atto sovranista nel perimetro bancario e finanziario può essere definito quello operato dal Presidente di El Salvador nello scorso febbraio, sulla base di quanto scritto dal Financial Times. Al fine di far approvare dal Parlamento un prestito di 109 milioni di dollari per finanziare un piano di sicurezza nazionale, il Presidente è entrato nel Congresso con truppe armate.
Nella regolamentazione bancaria, al crescere del numero dei governi sovranisti sarà più arduo individuare norme internazionali condivise, visto che ciascun governo avrà come priorità gli interessi immediati di una o più categorie di consumatori e/o produttori nazionali. Il nazionalismo sovranista tende a coincidere con l’isolazionismo. In questo senso, per esempio, è stata interpretata la scelta del governo ungherese di non aderire ai meccanismi europei di vigilanza bancaria unificata. Architetture come quella del MES vengono sempre interpretati come giochi a somma zero, in cui esistono necessariamente vincitori e perdenti, per cui al crescere del sovranismo la probabilità che tali archittetture internazionali nascano tende a zero. Al contempo, nei salvataggi bancari l’intervento statale deve essere massimizzato, perché solo l’esecutivo politico potrà capire quali sono gli interessi nazionali da difendere. L’ingresso dello Stato come azionista tende a essere ordinario nelle modalità, massimizzato negli importi, permanente nell’orizzonte temporale.
Infine, sia l’approccio liberale sia quello sovranista devono essere integrati con l’analisi politica dei costi e benefici. Perché non è necessariamente vero che il governo in carica massimizza il benessere collettivo in un orizzonte di lungo periodo. Anzi: il nazionalismo bancario, sia esso liberale o sovranista, viene definito dai politici in carica, il cui obiettivo può essere semplicemente la massimizzazione del consenso.
Introdurre la prospettiva che il politico abbia come scopo primario quello di andare – o rimanere – al governo rende la valutazione di ciò che accade senza dubbio più ricca, anche non necessariamente più semplice. Prendiamo il dibattito sulle regole finanziarie tra Regno Unito e Unione Europea nel post-Brexit. Il premier inglese Boris Johnson dipinge se stesso come un campione del nazionalismo liberale, in lotta contro le burocrazie di Bruxelles. Al contrario, nei mesi scorsi il commissario europeo Valdis Dombrovskis ha messo in luce il rischio che il Regno Unito volesse portare avanti una deregolamentazione finanziaria contrario ai principi liberali che invece ispirano l’azione dell’Unione Europea. Insomma: ciascuno accusa l’altro di non essere liberale. Identico discorso potrebbe essere fatto sull’atteggiamento dell’amministrazione Trump rispetto all’esigenza di armonizzare le regole bancarie ai criteri internazionali di Basilea. In Italia, sia nel governo sia nel Parlamento, ci sono partiti che possono ispirarsi sia al nazionalismo liberale sia a quello sovranista; al contempo, il rischio di instabilità politica è sempre dietro l’angolo. Staremo a vedere.
Per saperne di più:
S. Classens, «The financial crisis and financial nationalism», in S.J. Evenett, B.M. Hoekman, O. Cattaneo (a cura di), Effective Crisis Response and Openess: Implication for the Trading System, Londra, Centre for Economic Policy Research-CEPR, 2009.
I. Colantone, P. Stanig, «The surge of economic nationalism in western Europe», Journal of Economic Perspectives, 33(4), 2019, pp. 128-151.
M. Funke, M. Schularick, C. Trebesch, Going to Extremes: Politics after Financial Crisis, 1870-2014, CESifo Working Paper Series, 2015, n.5553.
D. Masciandaro, F. Passarelli, «Populism and central bank (in)dependence», Open Economy Review, 10 settembre 2019.
K. Mero, D. Piroska, «Banking union and banking nationalism», Policy and Society, 35(3), 2016, pp. 215-226.
S. Tarlea, S. Bailer, H. Degner, L.M. Dellmuth, D. Leuffen, M. Lundgren, J. Tallberg, F. Wasserfallen, «Explaining governmental preferences on EMU reform», European Union Politics, 201(1), 2019, pp. 24-44.
Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario