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Massimiliano Bruni

Italian sounding: minaccia o opportunità?

 

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Il settore alimentare costituisce uno dei pilastri dell’economia nazionale.  Nel solo comparto della manifattura alimentare l’ISTAT stima che in Italia vi siano più di 55.000 imprese, le quali danno lavoro a quasi 400.000 addetti. Con una dimensione complessiva di oltre 220 miliardi di Euro e un volume di esportazioni pari a 33 miliardi, fornisce un importante contributo alla bilancia commerciale del nostro Paese. I mercati esteri sembrano rappresentare oggi la principale opportunità di crescita di medio e lungo termine, a fronte di un mercato nazionale che evidenzia, dal 2013, un calo dei consumi alimentari delle famiglie italiane. Non stupisce, dunque, se il Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha più volte dichiarato di ritenere che un obiettivo da perseguire entro il 2017 è di arrivare ad esportazioni per 50 miliardi di Euro.

Nello scenario della crescita internazionale, molti lamentano la concorrenza, da molti considerata sleale, dei prodotti cosiddetti “Italian sounding”; prodotti realizzati al di fuori dall’Italia, presentati sui mercati esteri con nomi che evocano origini e caratteristiche italiane. ISMEA e il Ministero delle politiche agricole stimano che i falsi prodotti alimentari italiani superano i 60 miliardi di Euro e che due prodotti alimentari di tipo italiano su tre siano falsi. Se certamente questi prodotti tradiscono la tradizione e il gusto italiano e confondono spesso i consumatori stranieri, costituiscono veramente una minaccia oppure offrono anche una grande opportunità per i nostri prodotti e per le nostre aziende?

Un'interpretazione in controtendenza

Personalmente credo che i prodotti “Italian sounding” costituiscano una grande opportunità per le aziende italiane.

1Per aziende, essenzialmente di piccole e medie dimensioni, poter disporre di tanti “promotori occulti” della nostra qualità è un vantaggio potenziale. Questi prodotti vengono immessi sui mercati internazionali non solo da aziende che spesso sono state fondate da imprenditori di origine italiana, emigrati all’estero decenni fa, ma da aziende che ritengono che richiamare nomi, luoghi e tradizioni italiane costituisca il principale elemento di caratterizzazione. Implicitamente, stanno affermando che vorrebbero essere italiani, in quanto di qualità superiore. Su questo dovremmo fare leva, per affermare la genuinità e l’originalità dei prodotti italiani.
Istituzioni, organizzazioni di categoria, consorzi ed aziende dovrebbero concentrare i propri sforzi di marketing e di comunicazione nello spiegare che cosa significa essere veri prodotti italiani e il valore dei disciplinari di produzione, che nella grande maggioranza dei casi significa rigore, qualità e la scelta di non ricorrere a compromessi, anche quando questo significa rigidità operative e maggiori costi di produzione.

Tutto dipende, a mio giudizio, dai clienti e dai mercati ai quali si guarda e ai quali si punta. L’esperienza di eataly insegna che esiste un importante segmento di consumatori in molti Paesi del mondo che è desideroso di conoscere e capire meglio le nostre eccellenze e i nostri prodotti e che per essi sono disposti a pagare un significativo premium-price, quando ne comprendono il significato e il valore.

Il caso di riferimento: il Parmigiano Reggiano

Prendiamo l’esempio di uno dei prodotti più significatici a questo riguardo: il Parmigiano Reggiano.

ParmigianoReggianoIl disciplinare di produzione è molto rigoroso e prevede, fra le altre cose, “il latte della mungitura della sera e del mattino sono consegnati integri al caseificio entro due ore dalla fine di ciascuna mungitura. Il latte non può essere sottoposto a processi di centrifugazione”. “La coagulazione del latte, ottenuta con l’uso esclusivo di caglio di vitello, è effettuata nelle caldaie tronco-coniche di rame per ottenere fino a due forme per ciascuna caldaia. Le caldaie devono essere utilizzate una sola volta al giorno”.
Le implicazioni sono chiare: solo latte fresco italiano, grande qualità di produzione raggiunta attraverso sacrifici e maggiori costi. Il risultato è un prodotto unico, che trova sempre maggiori occasioni di consumo e di valorizzazione. Su questo dovremmo e dobbiamo puntare.

Secondo il Consorzio di Tutela il 34% della produzione annua, circa 3,3 milioni d forme, viene venduto all’estero, con Francia, Germania, UK, e Usa che da soli rappresentano quasi il 70% delle esportazioni. L’obiettivo dichiarato è di arrivare al 50% di export della produzione entro il 2020, guardando anche a nuovi mercati. 
Il focus sembra esser fin qui soprattutto la crescita dei volumi, mentre una quota importante nella creazione di valore dovrebbe essere ricercata anche nei maggiori prezzi proposti in funzione della qualità offerta rispetto ai prodotti non originali, attraverso un'oculata strategia di posizionamento e di marketing. Il Parmigiano Reggiano alla produzione vale complessivamente circa 1,12 miliardi e al consumo 1,97. Troppo poco se confrontato col suo valore potenziale.

Per questo occorre mettere in campo ulteriori iniziative capaci di spiegare le reali differenze esistenti fra il nostro DOP e le imitazioni straniere e attrarre il giusto segmento target, sia di consumatori che di operatori professionali, come ha saputo fare, in un caso apparentemente differente, l’acqua S. Pellegrino che, attraverso un’attenta e selettiva politica distributiva e una coerente strategia di marketing e comunicazione, si è saputa affermare come una delle più apprezzate acque minerali di alto di gamma, servita nei migliori ristoranti del mondo.

Una proposta operativa

Come per il Parmigiano Reggiano, moltissimi altri prodotti della cultura e della tradizione italiana possono trovare occasione di vendita e, soprattutto, di valorizzazione economica sui mercati esteri, tanto quelli tradizionali dei mercati occidentali quanto quelli in cui stanno rapidamente crescendo nuovi consumatori, alla ricerca di qualità e di eccellenza.

Per il sistema agro-alimentare italiano Expo 2015 dovrebbe essere proprio questo: l’occasione per avviare una sistematica azione volta a far comprendere al mondo che ci conosce in maniera superficiale o che non ci conosce ancora abbastanza perché i nostri prodotti sono migliori e meritano una considerazione differente, straordinaria. Dovrebbe essere un evento di marketing culturale, con lo scopo di vendere di più e meglio i nostri prodotti. E in questo le tecnologie e i mezzi digitali costituiscono un nuovo e importante alleato, da impiegare e saper usare per giungere più direttamente, velocemente ed efficacemente a diretto contatto con i decisori di acquisto e di consumo.

Occorre però fare delle scelte: si deve puntare sulle vere eccellenze italiane e su quelle i cui volumi di produzione possono soddisfare ingenti quote di domanda. Non è più tempo per tutte le oltre 250 DOP italiane, occorre concentrarsi sulle grandi eccellenze del Paese per trainare l’intero sistema agro-alimentare italiano. E gli ambasciatori dei prodotti italiani devono essere esperti di prodotto, sì, ma ancor più operatori di marketing e di comunicazione.

In questo senso, dunque, occorre fare leva sul valore della differenza ed unicità e trasformare  l’“Italian sounding” da minaccia percepita a reale opportunità di mercato.

massimiliano bruni