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E&M Podcast

01/08/2025 Sylvie Goulard

Una roadmap UE verso i nature credits: tra nuove opportunità e gestione dei rischi

Tagliare un albero genera ricavi, proteggerlo no: è questo il paradosso che l’Europa vuole correggere con l’introduzione dei nature credits. Il nuovo strumento mira a generare ritorni economici da azioni certificate a beneficio della biodiversità, anche in ambiti agricoli e industriali. Un’occasione per integrare sostenibilità, finanza e strategia d’impresa oltre la logica della compensazione.

Nell’attuale modello economico, l’abbattimento di un albero genera un ricavo diretto attraverso la vendita del legname. In alcuni casi, è possibile ottenere ulteriori incentivi partecipando a schemi di riforestazione. La conservazione dell’albero, invece – e con essa la sua capacità di assorbire CO₂ e contribuire all’equilibrio dell’ecosistema – non comporta alcuna forma di remunerazione. In un mondo alla ricerca di un equilibrio tra crescita e sostenibilità, è proprio questa logica che deve cambiare, ed è ciò che i cosiddetti nature credits (o biodiversity credits) possono rendere possibile. Con l’adozione della roadmap verso i nature credits, la Commissione europea compie un passo importante in questa direzione.

Perché può essere un cambiamento importante?
La natura fornisce una molteplicità di servizi ecosistemici: il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo. Eppure, le nostre economie si fondano ancora sull’illusione che tutto ciò sia gratuito e che la natura sia una risorsa inesauribile. Secondo la Commissione europea, oltre la metà del PIL globale e due terzi del valore aggiunto europeo dipendono dalla natura e dai suoi servizi. Se continueremo a ignorare questa dipendenza, i “rischi legati alla natura, inclusi quelli connessi alla perdita di biodiversità, potrebbero avere impatti macroeconomici significativi”, come già riconoscono numerosi banchieri centrali. Inoltre, le nature-based solutions rappresentano oggi la migliore possibilità per mitigare il cambiamento climatico e facilitare l’adattamento. La vita sulla Terra non sarebbe possibile senza gli oceani che regolano la temperatura o gli insetti che impollinano le piante. Foreste, oceani e mangrovie continuano ad assorbire il carbonio che emettiamo in modo insostenibile. Sempre più studiosi segnalano l’esistenza di un nexus tra clima, natura, cibo, acqua e salute umana.

Come potrebbe funzionare?
Da tempo diversi centri di ricerca e organismi internazionali lavorano con l’ambizione di “trasformare il capitale naturale in capitale finanziario” (Ralph Camy). Nel corso della COP16 di Cali (Colombia), l’International Advisory Panel on Biodiversity Credits (IAPB) ha presentato un insieme di principi ad alta integrità, accompagnati da progetti pilota. L’IAPB ha identificato diversi ambiti di applicazione per i biodiversity credits:
• contributi volontari, ad esempio da parte di aziende che vogliono sostenere la tutela dell’ambiente anche in assenza di obblighi normativi;
• compensazione locale, sotto controllo pubblico, per incentivare le imprese a evitare e ridurre il proprio impatto prima di ricorrere alla compensazione come ultima risorsa;
insetting lungo la filiera, ovvero la protezione degli ecosistemi da cui dipende il proprio business.
Il primo passo è una misurazione rigorosa dei guadagni di biodiversità. La Commissione insiste sulla necessità di certificare tali guadagni: “la certificazione garantisce che azioni concrete e di qualità, positive per la natura, siano realizzate secondo criteri e principi prestabiliti”. Su questa base, un nature credit potrà essere inteso come “un’unità che rappresenta un risultato positivo per la natura, derivante da un’azione certificata, verificata in modo indipendente e quantificata tramite metriche o indicatori riconosciuti”. Con il sostegno dei governi, delle autorità finanziarie e delle banche multilaterali di sviluppo, questi strumenti potranno generare flussi di ricavi per chi protegge le risorse naturali, anziché distruggerle.

È tuttavia essenziale valorizzare anche le lezioni apprese dall’esperienza dei mercati del carbonio, dove alcune soluzioni progettate in modo inadeguato hanno generato sfiducia tra le comunità locali. L’IAPB ha sottolineato, ad esempio, che i crediti di carbonio con un premio per la biodiversità non possono essere trattati alla stregua delle tonnellate di CO₂, che sono fungibili: la biodiversità, al contrario, è sempre specifica, contestuale e non replicabile. Molte questioni tecniche restano ancora aperte, ma il lavoro in corso dimostra che, a certe condizioni, è possibile creare meccanismi finanziari a sostegno della conservazione e rigenerazione della natura.

Cosa c’è in gioco?
La Commissione UE ribadisce che “le aziende che adottano strategie nature-positive (orientate alla tutela e al ripristino degli ecosistemi naturali) possono beneficiare di una maggiore fiducia da parte degli investitori, migliori condizioni finanziarie e una resilienza più duratura”. Alcune istituzioni finanziarie stanno già integrando la biodiversità nelle proprie valutazioni del rischio, con impatti su premi, criteri di concessione del credito e decisioni di investimento. Nel frattempo, diverse aziende private stanno analizzando le proprie dipendenze e i propri impatti sulla natura, per comprendere meglio rischi e opportunità.

In sintesi, non si tratta di ecologia nel senso tradizionale. Affrontare le questioni legate alla natura implica un vero cambio di passo nella gestione strategica: non più solo reputazione o conformità normativa, ma risk management, finanza, controllo della filiera, visione di lungo termine. I nature credits potranno accompagnare la transizione dall’attuale agricoltura intensiva (e spesso insostenibile) verso modelli rigenerativi. Come ha dichiarato Andrea Illy – tra i fondatori della Regenerative Society Foundation – a una conferenza in Bocconi nel giugno 2025: “I nostri modelli di business restano lineari ed estrattivi, mentre dovremmo passare a logiche rigenerative e circolari”. La sfida è assicurare la produttività nel lungo periodo attraverso la tutela dei suoli e l’adozione di metodi rigenerativi.

Biodiversità: un ecosistema di progetti e sperimentazioni
La complessità della biodiversità, il suo legame con i contesti locali e l’interazione tra natura, clima e dinamiche sociali rendono cruciale la fase di progettazione. L’IAPB incoraggia attori di diversa natura a sviluppare progetti pilota. Alcuni stanno già lavorando a biodiversity credits, altri portano avanti iniziative che possono offrire spunti utili per il futuro. Il panorama è ampio: dalle ONG (Wildlife Conservation Society in Mozambico, Terrasos in Colombia, Fauna & Flora in Sudafrica, Noé nella Repubblica del Congo) alle grandi aziende private (EDF in Francia, ENGIE negli Emirati Arabi), fino ai progetti supportati da banche di sviluppo come KfW, AFD, Inter-American Development Bank o dall’UE (Agence de l’eau, Seine Normandie, Restore in Perù). Alcune imprese adottano modelli di insetting: L’OCCITANE en Provence con la produzione di burro di karité in Burkina Faso; Illy Caffè per mitigare i rischi nella catena del caffè in Brasile e promuovere l’adattamento climatico delle colture; Kering a sostegno della produzione sostenibile di cashmere in Mongolia.

È importante sottolineare che i progetti che puntano a generare biodiversity credits possono riguardare tutti gli ecosistemi: terrestri (foreste, savane, terreni agricoli, boschi) e marini (barriere coralline, praterie sottomarine). Dalla rigenerazione delle foreste del Guizhou (Reforest’Action) all’intervento nel Maasai Mara (EarthAcre Inc.), fino alla restaurazione dei coralli nelle Filippine (Conservation International) o delle praterie marine in Kenya (Association of Coastal Ecosystem Services), le iniziative si moltiplicano. Le complessità tecniche non devono spaventare.

Gli esercizi di sperimentazione (sandboxing) sono già iniziati. Altri saranno i benvenuti.

 

Sylvie Goulard è copresidente dello IAPB e professor of practice di Global affairs and Geopolitics di SDA Bocconi School of Management.

 

Photo iStock / hh5800

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