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Finanza, vigilanza e truffe: il caso Wirecard
Nel mese di giugno è scoppiato in Germania lo scandalo Wirecard. Proviamo a ricordare i fatti salienti. Fino a quel momento, Wirecard era dai più conosciuta come un campione tra le imprese che utilizzano tecnologia per produrre servizi bancari e finanziari. Sono imprese che qualcuno ama chiamare «unicorni finanziari», evocando con il sostantivo la natura speciale – vera o presunta – della tecnologia utilizzata, e con l’aggettivo l’attività nel settore appunto della banca e della finanza. Ma d’improvviso un comunicato della Banca centrale delle Filippine conferma una notizia: Wirecard ha un buco di bilanco di quasi 2 miliardi di euro. Il dimissionario amministratore delegato e maggior azionista Markus Braun nega ogni addebito. Wirecard ritira sia il bilancio 2019 sia quello del primo trimestre 2020. Il buco sorprende i più, ma non tutti. In realtà fin dal gennaio 2019 una serie di scricchiolii, riportati dalla stampa internazionale, avevano sollevato dubbi sulla solidità dell’unicorno finanziario. Gli scricchiolii sono divenuti un vero e proprio crollo: Wirecard è divenuta insolvente, e – dati di metà luglio – ha perso in Borsa il 97 per cento del suo valore, pari a oltre 12 milardi di euro.
Ma chi controllava Wirecard? Se una impresa offre prodotti e servizi bancari e finanziari, sono i supervisori del settore che ne devono rispondere: i riflettori si accendono dunque sulla BaFin, il supervisore finanziario tedesco. Scoppiato lo scandalo, il presidente della BaFin, Felix Hufeld, ammette che il buco Wirecard è un «disastro completo», ma al contempo puntualizza che la sua sorveglianza riguarda solo un piccolo spicchio della Wirecard, e non il complesso dell’attività sul sistema dei pagamenti dell’ex-stella della tecnologia applicata alla finanza. Lo stesso può sostenere la Bundesbank, che di moneta dovrebbe intendersi.
Emergono così le due grandi falle della vigilanza. La prima è che una impresa non sottoposta ai controlli a cui devono sottostare le banche possa operare nel settore della moneta. Dal punto di vista regolamentare, Wirecard è il classico esempio di impresa finanziaria ombra: fa conconcorrenza alle banche, ma non deve rispettare le stesse regole, quindi sostenere i relativi costi. È un caso di concorrenza sleale, ma quello che è più importante sono i rischi che questo comporta sul settore più delicato di un’economia: il sistema dei pagamenti. Il funzionamento sano e regolare di un’economia di mercato prevede due forme di moneta. C’è la moneta pubblica, emessa direttamente da una banca centrale indipendente. C’è poi la moneta privata, che viene emessa dalle banche; i cittadini la accettano senza problemi perchè sono convinti che lo Stato sottopone le banche a una sorveglianza speciale. Al privilegio bancario di emettere passività che i cittadini usano come moneta deve corrispondere un costo regolamentare, per garantire la qualità della loro moneta. E poi ci sono i Wirecard di turno. Ma l’esistenza di finanza ombra di fianco alla moneta pubblica e a quella privata è rischiosa. La soluzione? Chiunque produca e distribuisca moneta privata, o che possa influenzare direttamente o indirettamente tali funzioni, deve essere sottoposto ai medesimi controlli delle banche. A partire dai requisiti di trasparenza e solidità. Il privilegio monetario non può essere un pasto gratis.
La seconda falla riguarda i temi dell’indipendenza e dell’accountability, di solito riservati all’azione delle banche centrali come responsabili della politica monetaria. In realtà la questione della qualità dell’assetto della governance delle autorità di controllo dovrebbe essere affrontato in modo sistematico. L’azione delle banche centrali è sottoposta a precise regole. La loro indipendenza non è discrezionalità. L’indipendenza di un’autorità di controllo nasce dalla necessità di avere una distanza di braccio sia dalla politica sia dalle imprese regolate. Per cui le banche centrali devono essere trasparenti. I loro rapporti con la politica e con le banche devono avvenire in una casa di vetro, in modo che i cittadini possano osservare e giudicare. La casa di vetro deve però valere per tutte le autorità di controllo. Il caso tedesco lascia attoniti per la possibilità che dà agli osservatori di avanzare dubbi – anche pesanti – sull’imparzialità dell’arbitro – la BaFin – rispetto alla condotta del giocatore – Wirecard. L’Unione europea, attraverso il suo supervisore finanziario – l’ESMA – ha deciso di approfondire il caso Wirecard, includendo anche il tema dei supervisori nazionali.
Una premessa importante: prima di giudicare un supervisore, quando si è in presenza di presunti comportamenti illeciti, occorre attendere, per capire quanto false erano le informazioni su cui il supervisore ha basato le sue azioni e decisioni. Se il controllore ha agito in modo professionale e onesto su dati falsi, il controllore non ha alcuna colpa. Allo stesso tempo, però, occorre capire se il disegno delle regole in cui il supervisore si muove può essere migliorato, in termini di trasparenza e accountability. Anche l’analisi economica deve fare progressi. Definire obiettivi per la politica monetaria è più facile che per la politica di vigilanza, sulle banche come più in generale sui mercati finanziari. Ma ciò non deve divenire un comodo pretesto per gli stessi controllori di fare e dire quello che gli pare. L’eccesso di discrezionalità diventa arbitrio. L’episodio tedesco ha mostrato ancora una volta che ci sono due grossi buchi da riparare in tema di trasparenza e responsabilità.
Nelle settimane successive, a salire sul banco degli imputati è il ruolo delle «quattro sorelle», come vengono chiamate le grandi società mondiali della revisione contabile: Deloitte, EY, KPMG e PWC. Nessuna novità: ogni qualvolta i riflettori si accendono su un crack di dimensioni globali – è già accaduto con Parmalat ed Enron – parte il grande dibattito su chi revisiona i revisori. Peccato che il grande dibattito sia l’ennesima replica di una commedia già vista e rivista.
La commedia dal titolo «sbatti il revisore in prima pagina» ha di solito tre atti. Nel primo atto si scopre una malattia: un’impresa – meglio se grande e globale – fallisce improvvisamente perché si scopre che c’è il cosiddetto «buco». Nel secondo atto c’è la diagnosi: la colpa è del revisore. Nel terzo atto c’è la cura, o meglio una serie di cure, che proviamo a riassumere con una formula: esiste un oligopolio mondiale, che va smontato. Ora, anche senza andare troppo indietro con la cronaca, e partendo appunto dal caso Parmalat, la commedia si ripete diciamo dal 2003, ed è sempre la stessa, senza che nulla di nuovo accada.
Perché? La risposta è semplice: le quattro sorelle, pur essendo società private, svolgono una funzione «quasi- pubblica» di produzione di informazione, che da un lato appare essenziale nell’attuale funzionamento dei mercati dei capitali, e dall’altro non sembra neanche sostituibile. La ragione? Chi fa le regole – i politici e i supervisori – non ha convenienza a produrre un modello diverso. Per loro è il migliore dei mondi possibili, almeno fino a prova contraria. Si noti che c’è una commedia parallela che si ripete più o meno dallo stesso numero di anni. Il titolo è diverso – «sbatti l’agenzia di rating in prima pagina» – ma la sostanza è la stessa: i mercati hanno bisogno di informazioni, chi le produce è un soggetto privato legittimamente orientato al suo profitto, e chi fa le regole ha convenienza che tale offerta di informazioni rimanga nella sua forma «quasi- pubblica». Per cui il rating privato viene incorporato dalla regolamentazione; vedi per esempio le regole delle banche centrali – a partire dalla BCE. Quindi anche le istituzioni di vigilanza delegano a società di revisione e agenzie di rating il compito di produrre informazioni necessarie per svolgere le loro funzioni pubbliche di regolamentazione e controllo.
Quanto ampia è la delega che le autorità di vigilanza bancaria danno alle società di revisione? Lo scorso gennaio il Journal of Financial Stability ha pubblicato un studio – di cui chi scrive è uno degli autori – che prova a rispondere alla domanda. Sono stati analizzate le relazioni tra le autorità di vigilanza bancaria e le società di revisione in 115 Paesi nel periodo tra il 2007 e il 2012, anche per cogliere un eventuale «effetto grande crisi». Per individuare un indice numerico che riassumesse tali relazioni sono stati analizzati tre diverse aree: i requisiti della revisione; i requisiti del revisore; la natura dei rapporti tra il vigilante, il revisore e la banca sottoposta ai controlli.
L’indice numerico è stato battezzato «Indice di Coinvolgimento» (IC), e poteva assumere un valore compreso da 0 – nessuna delega – a 9 – massima delega. I risultati ci dicono che le autorità di vigilanza fanno molto affidamento sul lavoro dei revisori: nel 2007 il 68 per cento del campione mostrava un IC con un valore superiore all’8; nel 2012 tale percentuale sale al 75 per cento. Si nota inoltre che al ridursi del ruolo dei revisori aumenta la probabilità che il Paese in esame sia stato colpito dalla grande crisi. Il dato mostra che i supervisori hanno dunque accresciuto la delega ai revisori dopo la grande crisi. Almeno due sono le possibili ragioni: in generale e in tempi normali, il revisore è un lavoratore specializzato, che svolge perciò quella funzione meglio di un lavoratore generalista – il supervisore; in momenti straordinari e magari negativi – come all’indomani di uno scandalo finanziario – il revisore è un utile capo espiatorio – per il supervisore, ma anche per il politico.
L’IC appare anche sensibile ad alcune caratteristiche dei sistemi di vigilanza. Più questo vede la banca centrale aumentare il numero – quindi la complessità – delle sue responsabilità, più la delega ai revisori è ampia. Inoltre si è assistito in questi anni a una rincorsa verso l’alto, nel senso che l’aumento della delega del vigilante al supervisore è stata tanto più probabile quanto più il Paese in esame partiva da un livello di delega basso. Quindi il rapporto tra le autorità di vigilanza e le quattro sorelle appare robusto e sistematico. Però poi accadono gli scandali finanziari.
Oggi è il turno di Wirecard. Politici e supervisori tedeschi – come tutti i politici e i supervisori in questi casi – hanno reagito in maniera sorpresa e indignata. Il vice ministro delle Finanze Jörg Kukies ha puntato l’indice contro l’organismo di autoregolamentazione dei revisori – la FREP – finora delegato dalla legge e dalla BaFin a compiti di controllo; ha promesso una riforma delle regole, a favore – guarda un po’ – proprio della BaFin. Come al solito, «sbatti il revisore in prima pagina». Il che ovviamente non significa escludere che nello specifico fatto uno o più revisori siano esenti da colpe. Ma additare come capro espiatorio la revisione, senza affrontare il tema della natura quasi-pubblica della loro azione, è troppo facile e conveniente per politici e supervisori. Come ogni politica dello struzzo. Fino al prossimo caso Wirecard.
Per saperne di più:
D. Masciandaro, O. Peia, D. Romelli, «Banking supervision and external auditors: Theory and empirics», Journal of Financial Stability, 46, 2020, pp. 1-19.
Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole 24 Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario.