E&M

1996/1

Claudio Dematté

Il sistema Italia: soggetto competitivo o terra di conquista?

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Una domanda provocatoria, non c’è dubbio. Una di quelle domande alle quali si sfuggirebbe volentieri. Anche perché per rispondere bisogna soppesare un mare di fattori e poi – con tutti i dati sul tavolo – si deve valutare anche l’imponderabile.

Un problema come questo si presenta quando si è invitati all’estero a presentare la situazione e le prospettive dell’Italia. Ogni volta che si deve affrontare questa responsabilità si è costretti a cominciare daccapo: a fare la mappa delle forze in campo, a rivedere le carte vecchie, a controllare i nuovi dati, a verificare certe ipotesi, a cercare spiegazione a fenomeni vecchi e nuovi che spesso sembrano sfuggire alla logica economica, ma anche a quella più semplice del buon senso. Più di dieci anni fa, ad esempio, incontravo colleghi e analisti finanziari convinti che un Paese non può sopravvivere ad un debito pubblico che superi un certo l’apporto rispetto al PIL: allora pensavano al 70-80%. Quando spiegavo loro che, date le condizioni sociali e politiche, un accordo per risanare la finanza pubblica non sarebbe maturato tanto presto, loro emettevano sentenze senza appello. Ho ritrovato alcuni di loro anni dopo. La domanda si era trasformata: come è stato possibile arrivare ad un debito pubblico del 130% senza finire nel disordine? Altre volte mi interrogavano sull’andamento del costo del lavoro, che negli anni Ottanta aumentava a tassi doppi di quelli tedeschi o francesi e cercavano di capire se e come si sarebbe arrestata quella corsa folle. Trovare la risposta in quegli anni era come guardare in una palla di cristallo. Alla fine la soluzione è stata trovata, in tempi e modi che nessuno poteva prevedere.

In breve, se uno vuole spiegare come funziona questo Paese – se sia condannato al declino o se abbia qualche prospettiva di inserirsi con successo nella competizione mondiale – si trova di fronte a grandi dilemmi perché qui più che altrove convivono forti contraddizioni. Non a caso per spiegare l’Italia si ricorre spesso a metafore che contengono il senso della precarietà. ma anche la speranza di una prospettiva confortata dall’esperienza di tanti scogli evitati: il calabrone che vola, pur contro le leggi dell’aerodinamica: la torre di Pisa che pende da secoli, ma non cade.

La verità è che, per ragioni varie, l’Italia è al centro di un processo di trasformazione che interessa l’economia mondiale, stretta fra i Paesi più avanzati sul fronte tecnologico ed organizzativo – quelli che godono i vantaggi di tecnologie proprietarie – ed i Paesi in via di sviluppo in corsa per catturare produzioni che nel dopoguerra erano diventate un’area di nostra specializzazione. Tutti i Paesi vivono questa tensione: ma l’Italia la vive più di altri per essere arrivata tardi all’industrializzazione, per avere strutturalmente alcune delle competenze tipiche da postindustriale (veda si creatività, capacità di design e di produrre estetica), avendo però anche i problemi tipici dei Paesi poveri (sistemi di istruzione e di ricerca disorganizzati e con poche risorse, sistemi di amministrazione pubblica inefficienti, processi decisionali politici lenti e disallineati con le necessità dell’economia postindustriale). Un Paese che si trova con un piede nel postindustriale ed il corpo nella logica e nella struttura sociale ed economica della prima industrializzazione.

Ma andiamo con ordine. Come ho detto, non è facile dire se il sistema Italia sia un soggetto competitivo o una terra di conquista. Prima di tirare le conclusioni mettiamo dati e carte in tavola. Nel fare questo applicherò ad un problema macroeconomico uno strumento di analisi tipicamente aziendale: l’analisi dei punti di forza e dei punti di debolezza, gli uni e gli altri visti in controluce rispetto ai Paesi con i quali l’Italia si trova a competere.

Cominciamo dai problemi che frenano il Paese. Ve ne sono almeno otto:

1.     gli squilibri della finanza pubblica;

2.     l’inefficienza della amministrazione e dei servizi pubblici;

3.     la struttura monopolistica e pubblica di alcuni settori chiave;

4.     il difficile posizionamento nella divisione internazionale del lavoro;

5.     gli squilibri territoriali;

6.     lo sviluppo difficile del capitalismo familiare

7.     la debolezza del sistema educativo e della ricerca;

8.     la caduta di tensione demografica.

 

Per fortuna, a fronte dei punti deboli vi sono alcuni punti di forza, apparentemente non altrettanto importanti, ma in realtà più decisivi di quanto si pensi:

1.     l’elevato tasso di risparmio e di investimento;

2.     la qualità del fattore lavoro;

3.     il forte tasso di imprenditorialità;

4.     una struttura produttiva per molti tratti tipica del postindustriale;

5.     una posizione geopolitica potenzialmente vantaggiosa.

 

Per il resto dell’articolo si veda il pdf allegato.