Ripensare l’impresa, rilanciare l’Europa
Quali scelte devono prendere oggi le imprese? E cosa possiamo fare come Scuola di Management per aiutarle, insieme a imprenditori e manager, in questo momento senza precedenti? A cinque anni dallo shock della pandemia e tre dall’invasione russa dell’Ucraina, le aziende si trovano ora ad affrontare la tempesta dei dazi, che mette in discussione non solo i ricavi ma anche il modo stesso di essere e agire sul mercato. Se la pandemia da Covid ha messo a nudo l’interdipendenza delle catene di produzione portando a un blocco della logistica, il virus dei dazi rende questo concetto ancora più evidente. Emblematica è l’immagine del Wall Street Journal, che nelle settimane scorse ha smontato pezzo per pezzo l’iPhone in tutte le sue centinaia di componenti, mostrando, per ciascuna di esse, da quale dazio e contro-dazio potrà essere colpita. Il risultato ha portato a due certezze: profitti minori per l’azienda e costi più alti per i consumatori di qualsiasi paese. Di fronte a questa immagine ci troviamo ancora una volta a porci le stesse domande di cinque anni fa: quanto durerà? Cosa possiamo fare per proteggere le imprese?
Ripartire dall’Europa
All’epoca, nei primi giorni della pandemia, le previsioni spesso contraddittorie oscillavano da pochi mesi a un paio di anni. Anche ora, con l’avvio della spirale di dazi e contro-dazi, ci troviamo in una situazione simile: il danno è fatto, ma resta la speranza che, di fronte a una reazione così forte del mercato finanziario, la strada della marcia indietro e della negoziazione sia ancora aperta. La certezza rimane per tutti quella di proteggere le aziende come motore di occupazione e quindi di benessere sociale in senso lato. Ci troviamo tuttavia per la seconda volta in cinque anni – o terza, se si considera il conflitto in Ucraina – in una situazione in cui il contesto di mercato impone la definizione di strategie e modelli organizzativi capaci di resistere all’onda d’urto di eventi imprevedibili come la chiusura pandemica e l’irragionevole chiusura dei commerci mondiali.
Da qui nasce una prima riflessione: senza capitali propri l’impresa non ha la forza necessaria per affrontare la volatilità delle grandezze in gioco e i rischi non ponderabili. Anni di tassi prossimi allo zero hanno alimentato l’illusione che crescere a debito sia un modo ragionevole di prosperare. Lo scenario che ci attende è tuttavia ben diverso: i tassi non torneranno facilmente ai livelli straordinari del passato, e l’incertezza richiede una robustezza che solo ingenti capitali di rischio possono garantire. A prescindere dalla dimensione dell’impresa – e a partire da quelle più piccole – una maggiore capitalizzazione non rappresenta solo la base per qualsiasi investimento, ma offre quella spinta a una gestione della liquidità con spazi di manovra più ampi e una maggiore forza contrattuale nell’accesso al credito bancario. Non ci sono su questo punto più alibi: pandemie globali, crisi energetiche indotte dalla guerra e ora le nuove barriere agli scambi commerciali richiedono robuste iniezioni di capitale. Spetta a ogni imprenditore valutare e cogliere quest’opportunità, decidendo se utilizzare risorse proprie oppure aprire il capitale. L’unica certezza è che uno spostamento strutturale della ricchezza come investimento verso le aziende è più che necessario e dovrà essere accompagnato da un’adeguata leva fiscale, pensata per sostenere soprattutto le aziende di minori dimensioni.
La seconda riflessione riguarda il ripensamento a lungo termine della presenza geografica delle imprese. Se gli avvenimenti di questi mesi portano a valutare la delocalizzazione negli Stati Uniti – e il reshoring americano è chiaramente uno degli obiettivi di questa offensiva dei dazi – la scelta è difficile sia per i costi attuali e prospettici piuttosto alti sia per la disponibilità di manodopera in uno scenario in cui gli immigrati vengono respinti o addirittura deportati. A meno che il dollaro non diventi così conveniente da compensare tutto ciò mettendo l’America in vendita: uno scenario poco plausibile, anche considerando l’imprevedibilità dei tempi in cui viviamo. La prospettiva deve essere più ampia e una strategia di reshoring europeo va perseguita con molta determinazione all’interno di ciascun paese dell’Unione, sia a livello di narrativa collettiva – che non può più essere marginale o sottotono – sia di politiche industriali e scelte delle singole imprese. Parallelamente, occorre promuovere una nuova apertura commerciale verso quei sistemi che offrono reali potenzialità di scambio: ciò implica trovare un rapporto equilibrato con la Cina, valorizzare la piattaforma del Golfo, rafforzare i legami con l’India e riscoprire le opportunità dell’America Latina e del continente africano nelle sue diverse dimensioni. Il reshoring europeo sarebbe peraltro una modalità straordinaria di capitalizzare tutti i vantaggi e gli sforzi realizzati in questi anni: dalla moneta unica, all’assenza di barriere e frontiere, alla disponibilità di direttive comuni in tanti settori, a un quadro evoluto di sviluppo sostenibile, a un’unione bancaria e, in prospettiva, dei capitali. Rilocalizzare in Europa significa ridistribuire a tutti i benefici dell’integrazione e creare le premesse per una forte attrazione di talenti nel continente.
La terza riflessione riguarda la crescita e le aggregazioni. Un forte sistema imprenditoriale ha bisogno di un ecosistema che abbia varietà al suo interno, composto da grandissime imprese capaci di competere su scala globale e diversificare i propri rischi, e da un tessuto di piccole e medie imprese, che ha in Italia e in Europa una forza straordinaria. Più volte ho scritto su Economia & Management che sul versante delle grandissime imprese, l’Italia – e più in generale l’Europa – è carente rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Una pandemia, una guerra e ora un mondo frammentato dai dazi sono motivazioni più che sufficienti per spingere – ora o mai più – verso alleanze e integrazioni all’interno dell’Unione. Questo vale in primo luogo per le banche, piattaforma di supporto dello sviluppo economico e dei commerci, ma anche per le imprese. Su questo punto occorre avere ben presente che le sfide si vincono nel medio termine con la qualità dell’ecosistema che si costruisce. Questa è, a tutti gli effetti, l’ultima chiamata: non possiamo permetterci di sprecare gli ingredienti che abbiamo già a disposizione – un vasto mercato europeo, istituzioni solide e una posizione geografica che ci colloca al centro degli scambi.
Più purpose, meno compliance
Il tema della crescita ci pone inevitabilmente di fronte a una domanda fondamentale: di quale capitalismo e di quali imprese hanno bisogno oggi l’Italia e, più in generale, l’Unione europea? Un terreno di discussione dove si scontrano posizioni opposte e radicate, ora a difesa delle piccole e medie imprese, ora delle aziende familiari; ora a sostegno dell’impresa pubblica, ora di quella privata. La mancanza di una sintesi e di un percorso prospettico è un tratto caratteristico del nostro paese e della nostra politica economica. Oggi a questa domanda occorre rispondere con un progetto ampio, perché in gioco non c’è solo il destino dell’Italia – e la tenuta del suo apparato produttivo di fronte alle nuove minacce – ma anche il suo ruolo in Europa.
Durante la pandemia la fragilità del tessuto imprenditoriale italiano, dovuta a un’eccessiva frammentazione e, soprattutto, a una bassa capitalizzazione, è stata temporaneamente attenuata dalla mano pubblica. Ma la prospettiva sperimentata dal 2022 a oggi – prima con la stagflazione, poi con un’improvvisa ondata inflattiva, nonché un ridisegno radicale delle catene produttive e distributive a livello internazionale – richiede una riflessione profonda che va ben oltre l’aiuto senza limiti dello Stato. Un intervento di cui, peraltro, dovremo presto pagare il conto, con un rapporto debito/PIL oltre al 150% e la ricerca di nuove strade di sviluppo. Queste sfide, che sono di sopravvivenza e di crescita insieme, tracciano le tre caratteristiche che le imprese – e, di riflesso, la loro proprietà, qualunque essa sia – devono avere: sostenibilità, dimensione, apertura. Tre temi indispensabili che diventano anche le direttrici con cui una Scuola di Management è chiamata a interpretare il proprio ruolo di formazione e di ricerca.
Il primo tema riguarda appunto la sostenibilità, un processo inarrestabile perché spinto da fattori che tutelano e migliorano l’ecosistema in cui viviamo. Occorre tuttavia prendere atto che il cambio di rotta dell’amministrazione americana e la corsa oltreoceano a smantellare interi uffici dedicati a ESG in senso ampio richiedono un salto di livello e la presa di coscienza che sostenibilità ed ESG stanno affrontando una sfida e un passaggio evolutivo fondamentale, in cui la sostanza delle azioni, delle strategie e delle scelte di produzione deve prevalere sulle logiche formali della compliance. In altri termini, dovrà emergere in modo più netto l’atteggiamento sostanziale delle organizzazioni e delle aziende verso la creazione di valore sostenibile. Ciò sarà decisivo per mercati e investitori finanziari che hanno bisogno di capire e valutare come un’azienda crea valore e impatto a lungo termine per decidere se investirvi o meno. In un recente libro, Lapucci e Lucchini (2024) suggeriscono provocatoriamente di aggiungere la lettera H – da human, umano – ai tradizionali principi ESG, un invito che coglie l’esigenza di superare la logica della compliance a favore della sostanza delle scelte aziendali. E sarà proprio la profondità delle motivazioni a orientare le decisioni degli investitori, tenuto conto delle linee di tendenza che abbiamo descritto. Conterà sicuramente meno il rispetto senz’anima e sostanza di un insieme di regole. Ancora di più potremmo dire che il sistema ESG non sarà più un abito da indossare a seconda della convenienza e da ritagliare su misura a seconda dei casi, ma una scelta di sostanza che guarda alla ragione d’essere profonda della singola azienda. Più purpose, quindi, e meno compliance.
Il secondo tema è quello della grande dimensione, una questione decisiva e al tempo stesso delicata per l’Italia, che ha spesso fatto dell’elogio della piccola dimensione un tema non fattuale ma ideologico. Perché, invece, abbiamo bisogno di scala e fame di crescita? Le ragioni sono almeno quattro:1. l’impatto: una grande impresa può avere un impatto complessivo rilevante, non solo in termini occupazionali e di welfare dei dipendenti, ma soprattutto nel perseguire una seria politica di sostenibilità, con costi e difficoltà elevati. Sostenibilità e politiche ambientali rigorose non richiedono solo ambizione, passione, buona volontà e rigore etico, ma soprattutto ingenti risorse finanziarie, attivabili soltanto oltre una certa soglia dimensionale;2. gli investimenti: la grande dimensione permette investimenti consistenti in innovazione, ricerca e sviluppo, indispensabili per rafforzare il vantaggio competitivo delle aziende e del Paese. Allo stesso tempo, le grandi imprese diventano il centro di gravità di indotti e filiere, e di quei processi di open innovation che si finalizzano solo nel momento in cui la grande dimensione ne diventa il catalizzatore;3. i talenti: grazie alla reputazione, alla possibilità di crescita e, talvolta, agli incentivi economici, le aziende più grandi riescono ad attrarre i migliori talenti che escono dalle università, così come i profili manageriali più qualificati. Soprattutto permettono ai talenti di lavorare insieme, liberando quel potenziale il cui impatto può andare ben oltre il raggio di azione del singolo individuo;4. la gestione del rischio: le crisi degli ultimi anni – dalla pandemia, all’invasione russa dell’Ucraina, dallo scoppio dell’inflazione al ritorno dei dazi – hanno insegnato che la diversificazione, sia in termini di portafoglio di prodotti sia di localizzazione geografica, permette di fronteggiare, al di là delle specifiche del proprio business, l’emergere del rischio anche estremo che può condizionare fatturato, profitto e, soprattutto, occupazione.
Sostenibilità e dimensione sono possibili solo se l’impresa è capace di aprire il proprio capitale e cogliere la forza straordinaria che i capitali di rischio possono offrire per la crescita delle proprie ambizioni e per l’attrazione dei talenti: da qui il terzo tema, quello dell’apertura. Affermare la necessità della grande dimensione non significa essere contro le PMI, così come sostenere l’importanza dell’apertura non significa essere contro le imprese famigliari. Significa, piuttosto, lasciare spazio – oltre al credito bancario, strumento sempre meno comune – al venture capital, al private equity e al mercato di borsa. In altri termini, serve una discussione matura su quali siano gli azionisti capaci di sostenere il pieno sviluppo dell’impresa e di metterla nelle condizioni di cogliere appieno le opportunità. Ben venga un’azionista rappresentato da una famiglia oppure dallo Stato o ancora da un fondo di private equity, a patto che questo non costituisca un freno e porti alla perdita di opportunità. Non ci devono essere azionisti buoni o azionisti meno buoni a seconda dalla loro origine, ma azionisti capaci di misurarsi sul campo e di farsi misurare con i risultati.
Fame di crescita
Dove si trova oggi l’Italia rispetto a sostenibilità, dimensione e apertura? Se guardiamo alla classifica Fortune Global 500, nel 2024 l’Italia è rappresentata da sole sei aziende, di cui la metà sono intermediari finanziari (Assicurazioni Generali, Banca Intesa e Unicredit) e l’altra metà aziende sviluppate nell’ambito del sistema pubblico (ENI, ENEL e Poste Italiane). Nel 2011 erano dieci, nel 2001 otto. Questi numeri non solo sono molto distanti da Stati Uniti e Cina ma anche dai paesi europei con cui ci confrontiamo: la Germania conta ben 27 aziende, la Francia 26, ricordando che anche la Spagna è davanti a noi con 9 aziende. Se guardiamo alla dinamica degli ultimi vent’anni, oltre alla crescita prepotente della Cina e a un aggiustamento inevitabile delle posizioni relative, solo il 50% delle aziende presenti in classifica nel 2001 è ancora presente oggi, e di queste il 90% ha fatto sistematicamente ricorso ad attività di M&A. L’Italia, invece, non solo ha visto scivolare le proprie aziende nelle posizioni di classifica, ma soprattutto non è riuscita a proporre nuovi nomi né a favorire la creazione di poli industriali localizzati attraverso un attivismo mirato nel settore delle acquisizioni. Con un’unica eccezione: gli intermediari finanziari. Spesso bersaglio di critiche, dovrebbero per una volta essere un buon esempio di come si possa crescere e affermarsi su scala internazionale.
La piramide dell’ecosistema imprenditoriale italiano – con alla base microimprese ed esercizi commerciali, al centro le PMI e al vertice un numero ristretto di grandi e grandissime imprese – rischia di diventare sempre più larga alla base e sempre più stretta in punta. Un’occasione sprecata, proprio perché è in questa base straordinaria di micro e di piccole e medie imprese che dovrebbe risiedere la vera forza del nostro paese. Un serbatoio – o un vivaio? – da cui far emergere storie di successo e aziende capaci non solo di diventare “unicorni”, ma soprattutto di entrare stabilmente tra i protagonisti della classifica Fortune Global 500. Se non abbracciamo queste sfide, se non puntiamo a una cultura della crescita, rischiamo di trovarci in un’economia priva di dinamismo e di vivere di spesa pubblica e nuovo debito. Un debito che, prima o poi, pagheremo usando la riserva dei nostri risparmi, peraltro molto cospicua e liquida.
A livello di politica industriale, queste scelte devono trovare una sponda molto chiara. La politica fiscale ha l’occasione storica di creare gli incentivi strutturali giusti per stimolare queste strategie. Vanno utilizzati i pochi spazi di riduzione delle imposte esclusivamente a fronte di scelte aziendali chiare: la crescita con M&A, l’investimento in innovazione, la capitalizzazione, la creazione di conglomerati, l’attrazione di holding capogruppo. L’occasione per far compiere all’Italia un salto è unica e bisogna prendersi la responsabilità di coglierla. Ma occorre anche un dibattito sano e privo di posizioni faziose e preconcette. Soprattutto non deve portarci a dire che la piccola impresa non va bene: evitiamo questo errore ricorrente. Quello che non va bene è l’assenza di passione per la crescita. Accanto al nostro tessuto ineguagliabile di PMI, di distretti e di filiere, dobbiamo trovare spazio anche per aziende ben più grandi e sviluppare vera fame di crescita. Start-up incluse. Altrimenti perderemo per sempre terreno sui tavoli decisivi dell’innovazione, della sostenibilità, dell’attrazione dei talenti, della creazione di reti e, non per ultimo, del nostro peso politico internazionale.
Oggi, come Scuola di Management, abbiamo bisogno più che mai di alimentare questa passione per la crescita, per aprire nuove strade. Di guardare sempre avanti chiedendosi se difendere lo status quo sia corretto oppure se sia una scelta dettata dalla paura o dal desiderio di conservare una rendita. Ma c’è bisogno anche di solidità e coerenza, quella che nasce da fil rouge sofisticati ma robusti, capaci di seguire con passione e cura i temi davvero centrali, al di là della passione effimera e veloce delle mode, che con facilità creano entusiasmo e con altrettanta facilità lo dissolvono. Le domande che ci poniamo ogni giorno nelle nostre aule, insieme a imprenditori e manager, sono proprio queste: come si concilia il paradigma delle aziende familiari in un mondo di giganti e di aziende che competono sulla dimensione? Quali azioni e quali modelli di gestione e di attrazione dei talenti sono più efficaci per rendere le aziende capaci di crescere? Quali condizioni e quali percorsi educativi occorre mettere in pratica per avere nuove generazioni di imprenditori? Cosa significa trasmettere la ricchezza e il patrimonio di relazioni alle generazioni future? La lista potrebbe essere ancora lunga. Ma, soprattutto, occorre sempre pensare anche a una strada che non siamo ancora in grado di vedere. Perché la bellezza delle sfide nelle imprese sta proprio nel lasciare il finale sempre aperto, senza immaginarne uno già scritto, e nel sapersi sorprendere del risultato, a volte insperato.
Stefano Caselli è Dean della SDA Bocconi School of Management (da novembre 2022), ed è Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari (dal 2007) e Algebris Chair in “Long-Term Investment and Absolute Return” (dal 2019) presso l’Università Bocconi. È inoltre membro del Comitato di Direzione di SDA Bocconi School of Management dal 2006.
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