E&M

1996/3

Gianni Canova

Il giocattolo e il maiale: le mutazioni in atto nel mondo delle merci e del lavoro

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Toy Story

Regia: John Lasseter

Film d’animazione

Usa, 1995

Babe - maialino coraggioso

Regia: Chris Noonan

Int.: James Cromwell e animali vari in animazione digitale

Australia, 1995

Arrivano i balocchi e il mondo del cinema grida al miracolo: interamente realizzato in computer graphic, Toy Story è il primo vero esempio di cinema virtuale della storia. Gli attori, i fondali, le locations? Archeologia. Tutti i personaggi e gli oggetti che appaiono nel film sono fatti di pixel e di avars: sono cioè modellati al computer e disegnati con una speciale “penna ottica” in grado di scrivere nella “terza dimensione”. Più che giocattoli, sono “anime digitali”: in loro prende corpo l’antico sogno letterario di dar vita all’inanimato e di infondere il soffio vitale in chi non ce l’ha. La metafora del Pinocchio di Collodi o degli automi di Hoffman diventa finalmente realtà e il cinema sembra poter fare a meno dell’uomo. Sembra: perché di fatto, al di là delle mirabilia tecnologiche che l’hanno generato, quel che racconta davvero un film come Toy Story è che stiamo entrando nell’era dell’antropomorfizzazione delle merci. O in quella di una sempre più stretta contiguità tra le merci e chi le usa e consuma.

Nel mondo “artefatto” del film di John Lasseter non c’è più sostanziale differenza fra i protagonisti “umani” e i giocattoli. Chi è l’uomo e chi l’oggetto? Difficile dirlo: il bimbo che gioca col pupazzo del cowboy è a sua volta un pupazzo. A distinguerlo è soltanto il diverso “ruolo” narrativo. Solo quello. Quanto al resto (la forma, la sostanza, il linguaggio ), non c’è più differenza. Gli uomini sono fatti della stessa sostanza delle merci, le quali “sentono” come gli uomini , e si conformano a loro. Prendete, appunto, i giocattoli del film: i salda tini di plastica verde che zampettano giù per le scale, i cani a molla meccanica, i bambolotti piantati su zampe metalliche e poi il dinosauro Rex, la pastorella Bo Feep, il cowboy Woody e l’eroe spaziale Buzz Lightyear rimodellano la propria identità mercantile su parametri umani. Il che significa che non solo amano, parlano e soffrono come i bimbi che li posseggono, ma addirittura pensano al proprio marchio di fabbrica come a un indicatore di appartenenza etnica (“lo vengo dalla Mattel, e tu?”. “io da Singapore... “), misurano i propri attributi merceologici con occhio antropologico (“Quando lo guardo mi prende l’invidia laser...”), trasformano le proprie istruzioni per l’uso in rivendicazioni sindacali (“La mia scatola dice che vado bene dai tre anni in su: non devo far da babysitter ai mocciosetti”), e soprattutto hanno un folle terrore di scoprirsi sorpassati e gettati via. Ogni natale, ogni compleanno e ogni ricorrenza festiva è vissuta dai giocattoli come un incubo, ogni pacco-dono che viene recapitato ai bambini è una tortura: c’è il rischio che il nuovo regalo soppianti la loro funzione e li con danni all’inservibilità. Cioè ad essere accantonati, buttati nel cesto della robavecchia o ammucchiati fra i rottami. Nessun film precedente ha saputo far parlare le merci con tanta efficacia, nessuna fiaba ha mai costruito una metafora così convincente della concorrenza e della rivalità che inevitabilmente si scatena – ormai – più fra i prodotti (animati?) che fra i produttori.

Ma un film come Toy Story ci dice anche che lo stesso valore d’uso degli oggetti è profondamente cambiato e che i processi sempre più rapidi di innovazione tecnologica non solo sottraggono il valore d’uso ad ogni criterio assoluto e oggettivo, ma lo legano alla variabile del tempo (servi e sei utile finché qualcuno o qualcosa non fa meglio di te quello per cui sei stato costruito) e lo espongono al rischio perenne della deperibilità.

Con molta più efficacia persuasiva di certi saggi accademici, Toy Story usa la metafora del giocattolo per descrivere fenomenologicamente le mutazioni in atto nell’universo delle merci, e il loro (e nostro?) progressivo diventare – come dice il filosofo Mario Perniola – delle “cose che sentono”. Toy Story ci dice che le merci sono ormai il tessuto connettivo che tiene unito fornitore e consumatore sul terreno della fedeltà e della qualità, e ci ricorda che quelle merci-giocattolo (cioè, in fondo, le merci per eccellenza della società ludica e “immateriale”) rappresentano anche un possibile paradigma delle nuove forme di lavoro: che non è più separabile dalla vita di chi lo presta, né è riducibile alla sua forma astratta (o al suo orario) perché consustanziato non con il corpo ma con la personalità di chi lo effettua.

Un altro film recente aggiunge nuove possibili suggestioni in una direzione analoga: Babe di Chris Noonan, popolato da animali realizzati anch’essi con l’animazione digitale, narra infatti di un porcellino che parla come gli umani e che si ribella al destino della sua suinità cercando di farsi cane e assumendone le funzioni nei confronti del gregge. Mentre l’oca che vive nella sua stessa aia e che vorrebbe farsi gallo fallisce nel suo intento perché adotta la tecnica del sabotaggio (cerca di distruggere la sveglia che sottrae valore d’uso al suo perfetto e sofferto chicchirichì), Babe vince perché non usa una tattica distruttiva, bensì una strategia mimetico-comunicativa. Imita il cane, ma cambia stile. Migliora le prestazioni canine tradizionali innescando processi di comunicazione più efficaci con le persone. Le coinvolge nelle decisioni, le responsabilizza, le fa sentire essenziali. Così accade che un maiale riesca a fare il lavoro del cane molto meglio di un cane: il valore d’uso delle prestazioni è commisurato ai risultati, non ai ruoli o alle funzioni. Nel nuovo mondo panantropomorfo delineato dal cinema contemporaneo, del resto, non ci sono più distinzioni durature, compiti stabili, ruoli garantiti e standardizzati. Come per i giocattoli di Toy Story, anche per gli animali di Babe il valore del lavoro si basa sull’erogazione di prestazioni comunicative e sulla capacità di interazione mobile, flessibile e creativa. Quanto è lontana la realtà degli umani da quella immaginata in questi mondi “virtuali”) La risposta – ancora una volta – dipende più che altro dalla nostra capacità di “sentire”.