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21/09/2016 Davide Reina

A proposito della necessità di rischiare sempre e abbastanza

L’uomo che fa molto sbaglia molto; l’uomo che fa poco sbaglia poco; l’uomo che non fa niente non sbaglia mai (Proverbio cinese)

Non aver paura di sbagliare è la condizione necessaria per fare le cose. Questo dice il proverbio. Per questa ragione le imprese che hanno paura di sbagliare (oggi diciamo: che hanno la cultura dell’errore «zero») sono condannate, presto o tardi, al declino. Ma come si fa in un’azienda a passare da una cultura dell’errore zero a una che non tema l’errore? La risposta è che occorre introdurre una cultura alternativa fondata sul rischio e sulla sua conseguenza: l’opportunità. Nelle imprese che non fanno, o che non fanno abbastanza, manca questa visione simmetrica del rischio e dell’opportunità che, sempre, vi è correlata. E soprattutto: nelle imprese di questo tipo il rischio di business e il rischio finanziario sono la stessa cosa, mentre nella realtà sono due cose completamente diverse. Il rischio finanziario infatti è misurabile attraverso «ratio» ben precisi, ed è visibile nei bilanci annuali dell’azienda. Il rischio di business invece è misurabile solo in termini qualitativi e non è riportato in nessun bilancio. Ma esiste, eccome se esiste. Ed è di gran lunga più importante e, se non governato, molto più grave del rischio finanziario. Ma che cosa determina il rischio di business? E come lo si può rappresentare?

Vediamo di rispondere alla prima domanda: il rischio di business in pratica corrisponde alla mancata presa di rischio reiterata nel corso dei giorni, mesi e anni da parte di un’impresa. È il non fare, che lo alimenta. Insieme con il fare, invece, da parte dei concorrenti, i quali, prendendo rischi e innovando, aumentano il rischio di business di quell’impresa che invece nulla fa, o che non fa abbastanza. Esattamente come il tempo, il rischio di business scorre solo in una direzione: quella del futuro. E, come una frase di Peter Drucker magnificamente riassume, esso cresce inesorabilmente con il passare del tempo a meno che noi come imprenditori non agiamo: «Difendere il passato, nel business, è molto più rischioso che costruire il futuro».

Ora, il paradosso del rischio è che il principale alleato di una cultura che difende il passato in azienda, e che quindi aumenta il rischio di business, è proprio l’eccessiva attenzione alla riduzione dell’altro rischio: quello finanziario. Se infatti si riduce il rischio finanziario ridimensionando gli investimenti in nuovi prodotti, canali e mercati, quello che si ottiene è un invecchiamento del posizionamento competitivo e, in ultima analisi, un aumento del rischio di business per l’impresa. Rischio pericoloso perché silente e perché, nel momento in cui mi accorgo della sua presenza, vale a dire quando i miei prodotti entrano nella fase di declino e il margine lordo incomincia a ridursi (perché se tengo su i prezzi scendono i volumi, o se riduco i prezzi non aumentano i volumi) è ormai troppo tardi.

Vediamo ora di rispondere alla seconda domanda. Come si può rappresentare il rischio di business? Semplice: come una curva che, partendo da un certo rischio di business molto basso nel tempo t0 che coincide con il lancio di un prodotto di successo, cresce con lo scorrere del tempo e in parallelo con la curva del ciclo di vita di quel prodotto. Curva del ciclo di vita che, incredibilmente, non è quasi mai analizzata nei bilanci delle imprese e nelle relazioni strategiche a questi allegate. Mentre dovrebbe esserlo, anzi dovrebbe esserne il cuore, per tre ragioni.

In primo luogo, perché è un’osservazione empirica (non è una teoria, deriva interamente dall’osservazione di ciò che accade) che si osserva, con la stessa forma e struttura della curva (introduzione, sviluppo, maturità, declino) per tutti i tipi di prodotti (cibo, scarpe, vestiti, computer, automobili, aerei ecc.) e servizi (conti correnti, polizze assicurative ecc.) venduti nel mondo, con la sola eccezione dei monopoli fondati sui brevetti o per legge di stato. Per cui essa rappresenta la maggioranza dell’economia mondiale.

In secondo luogo, perché tale curva rappresenta la dinamica del fatturato e dei margini che i clienti riconoscono all’impresa. E dunque, la sua forma e struttura disegnano nel tempo il modo con cui la realtà premia prima, e sanziona poi, l’azione dell’impresa.

In terzo luogo perché, mentre la superficie sottostante la curva ovviamente è solo stimabile in termini probabilistici, ex ante, invece la sua forma è certa. In altre parole: la curva è predittiva. E, come la sua forma stessa suggerisce, il raggiungimento della fase di declino è un evento ineluttabile a meno che, e qui sta il punto, non prendiamo (nuovamente) un maggiore rischio di business prima di raggiungere quella fase. E tutto si tiene.

Parafrasando la frase di Drucker prima riportata: se difendiamo il passato lungo la curva, allora ridurremo il nostro rischio finanziario ma finiremo in declino alla fine della curva, con un rischio finanziario minimo e un rischio di business massimo; se invece costruiamo il futuro lungo la curva, allora aumenteremo il rischio finanziario ma non finiremo in declino, perché nel frattempo avremo creato un’altra curva del ciclo di vita con un rischio di business minimo. Per spiegare meglio a chi legge, a questo punto credo che la cosa ottimale sia disegnare un grafico che riassuma il tutto (Figura 1).

 

Figura 1. Curva del ciclo di vita del prodotto, rischio finanziario e rischio di business

Curva cicllo vita 

Dall’analisi della Figura si possono trarre altre conclusioni molto rilevanti. Primo: non solo i due rischi non sono la stessa cosa, ma di fatto sono inversamente correlati all’interno del tempo che scorre. E questa relazione tra i due rischi sussiste anche se aggiungessi a questa analisi operazioni di tipo straordinario, come delle acquisizioni oppure delle cessioni. Non lo faccio unicamente per amor di semplicità. Perché questo tipo di operazioni avrebbero un impatto solamente sulla dimensione di questi rischi, producendo di fatto dei flessi verso l’alto o verso il basso nelle due curve. Ma, e questo è il punto per cui la mia semplificazione è accettabile, esse non modificano né la natura dei due rischi, che restano diversi tra di loro, né la loro correlazione di proporzionalità inversa, che rimane valida.

La seconda conclusione significativa è che, mai come verso la fine della fase di sviluppo, l’impresa percepisce la propria straordinaria salute finanziaria insieme con ottimi risultati di fatturato e margini. E si siede sugli allori. Mentre quello è proprio il momento in cui bisogna cercare di prendere nuovo rischio, generando un’altra curva. Il proprio prodotto quindi va cannibalizzato quando è nel tardo sviluppo, non quando è in declino. La presa di rischio giusta ma fatta tardi, in poche parole, diventa sbagliata. Va fatta in anticipo.

Capito che cosa è il rischio di business, come si muove lungo il tempo, e perché è diverso dal rischio finanziario, cerchiamo ora di individuare altre cose buone e giuste da fare per padroneggiarlo al meglio. Ancora una volta ci è utile il proverbio. Che distingue non solo tra l’uomo che fa molto e l’uomo che non fa nulla, ma anche tra l’uomo che fa molto e quello che fa poco. Il punto è capire perché conviene, rispetto al rischio di business, fare molto sbagliando molto, piuttosto che fare poco sbagliando poco. Il motivo è che, in pratica, il primo comportamento (fare molto sbagliando molto) determina un rischio di business per l’impresa inferiore a quello del secondo comportamento (fare poco sbagliando poco).

Evidentemente questa conclusione è controintuitiva, poiché la maggior parte di noi penserebbe che fare poco sbagliando poco sia meno rischioso che fare molto sbagliando molto. Mentre è vero il contrario. Le ragioni sono essenzialmente due. La prima è che facendo molto e sbagliando molto si diventa più bravi, e più veloci, a capire l’errore, mettere le cose a posto e ripartire. Come dicono a Silicon Valley: fail fast, learn faster. Questo non vale invece per un’impresa che fa poco sbagliando poco e che, di conseguenza, farà più fatica a capire l’errore e sarà più lenta nel rimettere le cose a posto e ripartire. La seconda ragione risiede nel fatto che, se un’impresa prende pochi rischi (cioè «fa poco») perché vuole sbagliare poco, ma poi malauguratamente il 100 per cento di quelle prese di rischio vanno male, allora l’impresa finisce per ritrovarsi con il 100 per cento di fallimenti e lo 0 per cento di successi «a compensare». In parole povere: se un’azienda in un anno prende cinque rischi e tre vanno male, allora quell’impresa si ritroverà alla fine dell’anno con due rischi che sono andati bene e che generano risultati positivi. Ma se un’impresa in un anno prende un rischio solo e quel rischio va male, l’impresa con quell’unico fallimento si ritroverà, alla fine dell’anno.

Quindi: meglio fare molto sbagliando molto, come dice il proverbio cinese. Si diventa più bravi e veloci dei concorrenti a imparare dagli errori/fallimenti (ed evolverli, magari, in successi) e, soprattutto, si determina una riduzione del rischio di business complessivo grazie alla diversificazione su di un maggiore numero di prese di rischio per unità di tempo (un anno, nell’esempio).

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