Fotogrammi

Gianni Canova, Severino Salvemini

Il diritto di uccidere

A chi spetta decidere se premere il grilletto?

Un covo di jihadisti alla periferia di Nairobi. Un drone li ha individuati. Stanno preparando un attentato kamikaze. È possibile fermarli con un missile. Ma il rischio di coinvolgere vittime innocenti è altissimo. Che fare? Il diritto di uccidere di Gavin Hood cala in un drammatico contesto bellico un’approfondita riflessione su ruoli e responsabilità nel processo decisionale.

Il diritto di uccidere

Regia: Gavin Hood

Int.. Helen Mirren e Alan Rickman

Usa, 2016

 

Premere o non premere il grilletto? Questo è il dilemma.

Se lo si preme, e si fa partire il missile collegato, alcuni terroristi nascosti in una casa di Nairobi, intenti a indossare giubbotti esplosivi con cui probabilmente si apprestano a compiere un attentato kamikaze in un vicino centro commerciale, salteranno in aria e verranno resi inoffensivi. Ma c’è il rischio molto alto che così facendo restino coinvolte anche vittime civili, a cominciare da una bambina che sta vendendo il pane nella strada adiacente al covo. Se invece non si preme il grilletto, si evitano di certo vittime innocenti, la bambina che vende il pane è salva, ma ci si espone al rischio di consentire ai terroristi di compiere attentati futuri. Che fare?

Il diritto di uccidere di Gavin Hood si basa su una classica struttura dilemmatica: tutti i personaggi sono posti di fronte alla necessità di una scelta che ha pesanti implicazioni morali e coscienziali. In questo modo il processo decisionale – sia individuale che collettivo – diventa il vero protagonista del film. Adottando il punto di vista di un drone che dall’alto del cielo (Eye in the Sky è il titolo originale…) tiene sotto controllo il covo, e quello di un minuscolo «scarabeo» (un piccolo drone a forma di insetto volante, che riesce a penetrare nel covo e a trasmettere le immagini di quel che accade all’interno), la sceneggiatura di Guy Hibbert riesce nel difficile compito di trasformare in azione drammatica un dilemma morale legato al tema della decisione e della responsabilità. Chi deve decidere? Chi deve assumersi la responsabilità della decisione? Il film pone questi interrogativi in un contesto bellico segnato da una drammatica urgenza, ma il racconto assume una valenza metaforica anche più ampia e si offre come riflessione a suo modo paradigmatica sui modi e sulle forme di ogni processo decisionale. Anche in un contesto aziendale. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

 

S.S. Il processo decisionale che si svolge nella war room londinese coinvolge i tre poteri dello stato: quello militare, quello giuridico e quello politico. Ognuno di essi ragiona con logiche euristiche diverse e ciò rende la scelta molto articolata e complicata. I militari ragionano con una logica «riduzionistica» e apparentemente più spietata, i legali con attenzione a non infrangere le regole burocratiche stabilite (le “regole di ingaggio”), i politici sono più titubanti e interessati anche a capire le ricadute d’immagine del loro operato.

 

G.C. L’efficacia del film, secondo me, sta nel fatto che nessuna delle ragioni che tu hai sintetizzato prevale sulle altre. La bravura dello sceneggiatore sta nella capacità di render conto delle ragioni di tutti: dell’impazienza dei militari, della cautela dei politici, della titubanza dei consulenti legali.

Abilissimo nell’incrociare i punti di vista (legale, militare, giuridico, coscienziale), così come i diversi piani dell’argomentazione, il film ha il pregio di non far sconti a nessuno e di evidenziare il fatto che – in fondo – hanno tutti ragione. O le loro ragioni. E questo mi sembra sia un dato ricorrente in tutti i processi decisionali complessi…

 

S.S. Non c’è dubbio. Ma qui l’articolazione della decisione viene ulteriormente complicata dai fatti, che si susseguono con rapidità e che non consentono di costruire ipotesi certe al 100 per cento. Ciò che sembrava una decisione semplice (strutturata e già avvenuta in passato) finisce per diventare nuova e inesplorata per un misto di giuste cause e di grandi codardie. L’urgenza di agire diventa una priorità e quindi la soglia della soddisfazione decisionale deve per forza ridursi a un livello di sicurezza molto più bassa della decisione ottimale. Agire subito e sbagliare o aspettare a fare ulteriori analisi e non riuscire più ad agire perché i buoi sono scappati? Salvare l’Occidente dalle bombe terroristiche o assassinare gli innocenti? La forza del film si manifesta proprio nel confronto tra le varie tesi e sul fatto che ognuna delle possibili azioni ha una sua validità intrinseca (quella mediatica, quella etica, quella di potere, quella burocratica-procedurale, quella giuridica, e così via).

 

G.C. Tutti i personaggi devono prendere decisioni in condizioni di massimo stress e devono riuscire a convincere gli altri che la loro decisione è quella giusta. Il colonnello inglese Helen Powell – magistralmente interpretato da una bravissima Helen Mirren – scalpita e freme, al punto di spingere un suo sottoposto a modificare i dati sui possibili effetti collaterali dell’azione pur di ottenere dai superiori l’autorizzazione a procedere. Lei è convinta di essere nel giusto, è disposta anche a sacrificare una vita innocente – quella della bambina africana che all’inizio del film ballava con l’hula hop – pur di non correre il rischio che un possibile attentato sacrifichi molte più vite. Ma perfino il sergente che guida l’aereo in Nevada da cui dovrebbe partire il drone ha dei dubbi, e rinvia fino all’ultimo il momento in cui premere il grilletto perché sente tutta la responsabilità di una scelta che mette a repentaglio la vita di tanti esseri umani.  

 

S.S. Nel complesso i decisori americani appaiono più spregiudicati e pragmatici; quelli inglesi più cauti e a volte anche un po’ più meschini Ma a me ha colpito molto anche il gioco di rimpallo decisionale che il film mette in scena. Nessuno a livello istituzionale intende sobbarcarsi il peso e le responsabilità dell’azione. Tutti rimettono la decisione finale o al loro diretto superiore gerarchico o all’alleato lontano (gli inglesi agli americani, e viceversa…), nella speranza di sgravarsi in questo modo da un problema di coscienza personale. E il fatto che il processo decisionale avvenga in un teatro apparentemente neutro, quello rappresentato dalla sala dove sono dislocati gli schermi che consentono di vedere ciò che bisognerebbe colpire, rende più blandi gli aspetti emotivi, lasciando grande spazio ai calcoli razionali su cosa bisognerebbe fare.

 

G.C. Ciò vale per i personaggi, ma non per noi spettatori. Noi siamo come dentro l’azione. Dentro i vari scenari e le varie visioni che compongono il puzzle dell’azione. La tensione per noi diventa quasi insostenibile. È come se il film chiedesse anche a noi di decidere. Come se ci facesse provare direttamente l’urgenza e la drammaticità della decisione. Fa anche noi, per una mezz’ora, dei decisori strategici. E in ciò, credo, sta uno dei suoi più grandi pregi. 

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