Interventi & Interviste

Con il populismo i conti non tornano

Intervista a Luigi Guiso

Il populismo visto dalla prospettiva della dinamica domanda-offerta sembra prestarsi alla metafora del dito e della luna: si chiede e si promette protezione sull’immediato, senza considerare che si finisce per avere più costi che benefici, peggiorando di fatto situazioni già complesse. Ne parliamo con il professor Luigi Guiso (Einaudi Institute for Economics and Finance) che, insieme a Massimo Morelli (Università Bocconi), Helios Herrera (Warwick University) e Tommaso Sonno (Università Cattolica di Lovanio), ha firmato un paper dal titolo «Domanda e offerta di populismo», pubblicato su Vox e che analizza dati riguardanti 26 paesi europei.

Partiamo dal lato della domanda. «La principale evidenza sul lato della domanda – spiega il professor Guiso – è che le variabili economiche sono determinanti molto significative nello spingere il voto verso i partiti populisti. Redditi ridotti, crisi finanziarie e una più elevata insicurezza economica derivante dall’essere esposti alla globalizzazione, alla competizione degli immigrati guidano il voto populista. L’insicurezza economica ha un effetto diretto sull’orientare il voto in senso populista ma ha anche un effetto indiretto: riduce la fiducia nei soggetti tradizionalmente presenti nel panorama politico e favorisce il voto ai partiti populisti attraverso questo canale. Questo insieme di variabili, quando presente, porta a due esiti: o ci si astiene dal voto, o si vota a maggior ragione per i populisti».

Quindi, se si mettono insieme gli shock economici e la perdita di fiducia nei politici nazionali, il risultato è un combinato disposto che fa esplodere la domanda di politiche populistiche.

E sul fronte dell’offerta? «La prolungata crisi economica ha determinato l’ingresso dei movimenti e dei partiti populisti che hanno tratto vantaggio dal crollo della fiducia nei politici e nelle istituzioni tradizionali. La prolungata stagnazione che ha seguito la crisi ha fatto emergere un altro fenomeno: i partiti tradizionali, di fronte al calo di gradimento e al crescere della domanda di protezione sul breve termine, hanno cominciato a virare su politiche di taglio populistico. Nessun movimento anti-populista si è fatto avanti con successo per intercettare i voti di quanti vedono i pericoli di un eccessivo focus sul protezionismo: il peso della retorica anti-élite è tale da rendere difficile portare avanti una campagna anti-populista credibile».

Eccoci al nocciolo della questione: quali sono gli aspetti di policy di taglio populista che più contengono in sé costi da pagare e che vengono diciamo «mimetizzati»? «Svariati. Ecco alcuni esempi. I dazi e le barriere al commercio danno l’illusione di eliminare la causa più prossima della perdita di lavoro per i lavoratori esposti alla concorrenza. Ma si trascura di dire che il dazio imposto dal paese A per le merci di B provoca un dazio di B per le merci di A. Nessuno ci guadagna nel nuovo equilibrio. Ne abbiamo una sensazione palpabile con i dazi di Trump sulle merci italiane. Un altro esempio è l’ambiente. Trump vuol far saltare l’accordo sul clima; la giustificazione è la protezione dei lavori manifatturieri. Il costo è l’inaridimento del pianeta nel lungo periodo. In generale le politiche populiste tendono a rimuovere la causa prossima del fenomeno, non a rivolgere e gestire la causa profonda. Per questo di norma sono politiche inefficaci».

Possiamo anche indicare qualche motivo per cui il populismo non conviene specificamente alle aziende? «Per alcune aziende magari conviene pure: quelle che non riescono a competere sul mercato globale e che possono sopravvivere solo se protette da un dazio. Ma per le imprese che hanno una vocazione a esportare, come la grande maggioranza delle imprese italiane, quel tipo di politiche è molto dannoso. Le grosse imprese lo hanno intuito da parecchio, le piccole lo stanno apprendendo. Lo stesso discorso vale per le proposte sull’uscita dalla moneta unica. Si pensa – e si illudono le persone – che quella sia la soluzione; bisogna però ricordarsi che la svalutazione del cambio è uno strumento che dà un po’ di sollievo per qualche mese e aiuta la gestione del ciclo economico. Ma non è quello che rende un’economia competitiva e ricca. Se bastasse svalutare il cambio, lo Zambia sarebbe ricco come la Norvegia».

La combinazione, da voi indicata come rara, di incapacità dei mercati e dei governi di garantire sicurezza è l’elemento che distingue questa congiuntura storica da altre situazioni di crisi. Una crisi doppia, quindi, che influenza sia la domanda sia l’offerta di populismo nelle diverse dimensioni: partecipazione, decisioni e competizione elettorale. Viene spontaneo chiedere: che fare? «Credo che questa doppia crisi ci suggerisca un ripensamento del sistema di welfare. I nostri sistemi sono pensati per proteggere un lavoratore dalla perdita del lavoro, e aiutarlo a trovarne rapidamente un altro simile. Non sono adatti per gestire continue ma incerte riconversioni delle competenze, alimentate sia dalla concorrenza sia dal progresso tecnico – oggi molto più rapido che in qualsiasi altro momento nella storia del capitalismo. Occorre ripensare il sistema per adattarlo a questa nuova esigenza».

(om)

Luigi Guiso