E&M

2018/1

Fabrizio Perretti

Leggere la realtà per trasformarla

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La promessa di un’eredità

«Il fine della nostra ricerca sarà quello di tornare al luogo da dove siamo partiti e conoscerlo per la prima volta». Si tratta di un celebre verso di T.S. Eliot, tratto da I quattro quartetti, che meglio descrive lo spirito con cui mi accingo a guidare la rivista nella mia veste di nuovo Direttore editoriale. Quest’anno la rivista compirà infatti trent’anni dalla pubblicazione del suo primo numero e in questi tre decenni la realtà economica e manageriale è molto cambiata, in Italia e nel mondo. Nel 1988 non vi era ancora il web, in Italia non si era ancora diffusa la telefonia cellulare, vi era ancora il muro di Berlino e un mondo bipolare con l’Unione Sovietica, la Cina era «soltanto» l’ottava potenza economica mondiale, dietro l’Italia. In tutti questi anni Economia & Management ha tentato di interpretare il significato – per le imprese e per il management – di questa realtà in continuo e profondo cambiamento. Per capire come riuscire a farlo anche per il futuro è importante ritornare al punto di partenza e riscoprirne le radici.

Nell’editoriale del primo numero Claudio Dematté, nella sua qualità di fondatore, indicava chiaramente come la rivista fosse dedicata alle aziende, ovvero a tutte le istituzioni (imprese, intermediari finanziari, enti pubblici o anche organizzazioni senza fini di lucro) dentro le quali si svolge in forma organizzata larga parte dell’attività economica. L’attività di management e il contesto economico e sociale entro cui operano le aziende rappresentano – fin dall’origine – il centro d’attenzione della rivista, sia come focus sia come prospettiva di analisi e interpretazione, da parte di chi le studia nelle università e nei centri di ricerca, ma anche di chi vi opera dall’interno e ne fa oggetto di riflessione. Interpretazione caratterizzata quindi da un pluralismo di voci e di prospettive, ma che deve nello stesso tempo rifuggire l’adesione acritica, l’abbandono fideistico e il cedimento intellettuale.

Il fine che la rivista si propone non è però solo quello di interpretare la realtà, ma è anche quello di stimolare una reazione continua, di partecipare a un dibattito pubblico che coinvolga anche il management e le stesse imprese che studia e a cui si rivolge. Come ricordato da Dematté, il modo migliore per aiutare le imprese a trovare ciascuna la propria strada è quello di esporle all’insieme delle esperienze e delle idee che si confrontano sul tema, anche costringendole a guardare quello che preferirebbero evitare, toccando alcuni nervi scoperti. Ciò che qualifica una classe dirigente è infatti la sua capacità di mettersi in gioco, di rendersi disponibile, di farsi giudicare. È su questa visione originaria, su questa eredità, che si fondano la premessa e la promessa della futura linea editoriale della nostra rivista.

Città intelligenti, nazioni ribelli e imprese migranti

Il dossier di questo numero è dedicato alle smart city e alle strategie di pianificazione urbanistica e investimenti nelle tecnologie della comunicazione, dei trasporti e di progetti ecosostenibili in grado di aumentare le prestazioni di una città, sia nei confronti dei suoi cittadini (qualità della vita) sia nei confronti delle istituzioni e delle imprese che vi risiedono.

Se lo osserviamo dal punto di vista delle imprese, il fenomeno delle smart city si può ricondurre all’interno delle stesse logiche delle città globali descritte da Saskia Sassen[1]: all’aumentare della dispersione delle attività (non solo quelle manifatturiere) su scala multinazionale, per le imprese globali diventano sempre più complesse e strategiche le funzioni centrali di coordinamento e di finanziamento. Poiché si tratta di attività a elevata incertezza e che beneficiano di spillover di conoscenze e di reti relazionali, queste funzioni sono soggette a economie di agglomerazione che trovano quindi nelle città la loro destinazione primaria. Per le imprese globali collocare tali attività in quei centri urbani che presentano un’elevata densità di informazioni e che favoriscono al meglio tale scambio diventa non solo importante, bensì fondamentale e quindi necessario.

Le città che investono in una prospettiva smart rappresentano quindi i soggetti urbani in maggior grado di competere per attirare gli insediamenti, con i connessi investimenti, delle imprese e delle istituzioni multinazionali e globali. Il recente esempio di Amazon, che ha lanciato una gara negli Stati Uniti per la costruzione del suo secondo quartier generale (dopo quello di Seattle)[2], evidenzia chiaramente come molti dei requisiti richiesti nel bando (area metropolitana in grado di attrarre persone con elevato talento tecnico e creativo, vicina a un aeroporto internazionale e alle principali arterie di trasporto, con un sistema di mobilità urbano capillare ed efficiente) rientrino nella definizione delle smart city.

Nel momento in cui si trasformano sempre più in città globali, le smart city corrono però il rischio di creare un progressivo distacco della loro prosperità economica rispetto all’hinterland che le circonda e, in alcuni casi, alla stessa nazione di appartenenza. Questo divario può determinare conseguenze sociali e politiche non trascurabili. Il recente esempio della Brexit non ha solo registrato la separazione tra Londra (che nella maggior parte dei suoi collegi ha votato per rimanere nell’Unione Europea) e il resto della nazione, ma ha anche evidenziato come il suo divario economico sia stato in parte causa di un sentimento più ampio contro la globalizzazione[3]. Le città globali, se da una parte assomigliano infatti a dei fari in grado di attrarre a sé risorse e talenti, dall’altra illuminano e rendono ancora più evidenti le differenze rispetto a chi ne rimane fuori, che spesso si percepisce come escluso e che gli altri invece percepiscono come un peso, una zavorra per una crescita ancora maggiore o un ostacolo che rischia di far perdere posizioni nella competizione globale.

Se la trasformazione in città globali può alimentare sentimenti ostili[4], la proliferazione di questa tipologia di centri urbani rende però più semplice per le imprese – ove le condizioni nelle città di insediamento non presentino più le condizioni ottimali per una loro permanenza – la possibilità di trasferire le loro attività in altri luoghi con le stesse caratteristiche. Anche in questo caso, i recenti eventi della Catalogna evidenziano – per motivi opposti alla Brexit, ovvero la volontà di separazione della parte più ricca di una nazione – come molte imprese con sede a Barcellona abbiano reagito immediatamente alle mutate condizioni, decidendo di trasferire le loro sedi[5].

Di fronte a una situazione di insoddisfazione e in presenza di alternative, nel Regno Unito così come in Catalogna, molte imprese reagiscono con l’opzione «exit». Se in molti casi si tratta dell’opzione più semplice e conveniente, in altri casi l’opzione alternativa[6], ovvero quella di far sentire la propria «voce» e intervenire nel dibattito pubblico, non risulta praticabile[7]. Si tratta invece di un’opzione che dovrebbe essere recuperata e incoraggiata dalla nostra società. Non è però solo una questione di dare voce e ascolto alle imprese, ma anche – da parte di queste – di essere in grado di farsi ascoltare quali soggetti credibili e di cui ci si possa fidare. In molti casi, si tratta di un rapporto di fiducia che le imprese devono costruire o ricostruire con la società e le nazioni di cittadini di cui fanno parte.

5

S. Sassen, The Global City, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2001 (trad. it. Le città nell’economia globale, Bologna, il Mulino, 2010).

6

N. Wingfield, P. Cohen, «Amazon Plans Second Headquarters, Opening a Bidding War Among Cities», Nytimes.com, 7.9.2017.

7

L. Elliott, «Brexit Is a Rejection of Globalization», Theguardian.com, 26.6.2016.

8

D. Harvey, Rebel Cities, London, Verso, 2012 (trad. it. Città ribelli, Milano, il Saggiatore, 2013).

9

G. Del Ser, «The Companies That Are Leaving Catalonia», Elpais.com, 10.10.2017.

10

A.O. Hirschmann, Exit, Voice, and Loyalty, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1970 (trad. it. Lealtà, defezione, protesta, Bologna, il Mulino, 2017).

11

S. Gordon, «UK Companies Fear Speaking out on Brexit», Ft.com, 10.7.2015.