E&M

2015/6

Gianmario Verona

Costruirsi la Silicon Valley in casa con la corporate entrepreneurship

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Da qualche anno si paventa un cambiamento epocale nella media e grande azienda manageriale che abbiamo ereditato dal ventesimo secolo. Il messaggio chiaro e forte che deriva dall’ondata di innovazioni introdotte da startup e concorrenti di settori attigui al proprio è che chi è preposto al governo dei principi e ai processi di gestione aziendale (ovvero il management) non possa più farsi trovare impreparato di fronte alle innovazioni che stanno invadendo le rispettive industrie. E se questo messaggio da qualche anno sembra oramai compreso in settori quali il cloud, il farmaceutico e l’entertainment – in cui le evidenze empiriche prodotte tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio illustrano come le innovazioni disruptive fossero prevalentemente frutto di startup – la sua accettazione sembra ora allargarsi ad ambienti anche più resilienti al cambiamento per ragioni istituzionali o tecnologiche.

Si pensi a puro titolo esemplificativo a ciò che sta accadendo nel settore automobilistico. Da quando è nata, l’industria dell’auto si è caratterizzata per una traiettoria d’innovazione incrementale (che ha consentito di introdurre automobili di varie dimensioni, prezzi e cilindrate) e radicale (che ha portato a migliorare potenza e materiali del prodotto). Tuttavia, l’innovazione ha seguito una logica evolutiva rispetto al prodotto originario: difatti, l’auto che abbiamo acquistato fino a oggi, seppur più potente, confortevole, esteticamente bella e piena di significati simbolici, è pur sempre una macchina con quattro ruote e un motore a combustibile, esattamente come aveva immaginato Henry Ford nel 1908 quando aveva ideato e realizzato il lancio del modello T, la cosiddetta “macchina che ha cambiato il mondo” e che ha fatto la storia del settore.

Al contrario, oggi stiamo finalmente vivendo un’era di fermento che porterà nei prossimi cinque anni a cambiamenti sostanziali nella logica del prodotto e servizio e nella concezione di automobile che il mercato prenderà a riferimento in futuro. L’immaginario collettivo è stato recentemente stimolato dagli avvincenti racconti sulle innovazioni radicali che vanno dalla Tesla di Elon Musk, portata a ridefinire l’architettura tecnologica di prodotto con un motore elettrico grazie ai suoi modelli S, X e 3, fino ad arrivare alle più recenti macchine progettate da Google e Audi, dotate di un cervello digitale in grado di guidare senza bisogno di autista attraverso l’elaborazione di big data, e alla iCar di Apple, di cui allo stato attuale sussistono solo indiscrezioni che tuttavia appaiono quantomeno rivoluzionarie. Si pensi, nell’ambito dello stesso settore, a forme d’innovazione meno radicali ma altrettanto disruptive che non vanno ad intaccare l’architettura tecnologica della macchina, ma ne cambiano il significato e ne trasformano il concept, portandola a divenire non più un prodotto ma un servizio da acquistare al consumo esattamente come è avvenuto anni or sono con i computer e il software e come è appena accaduto alla musica che dal download passa allo streaming. La logica globale di sharing di Uber e di tutti gli altri operatori più locali, che favoriscono il car pooling – in Italia BlaBlaCar – o che permettono il trasporto locale – Car to Go ed Enjoy –, trasforma in servizio un prodotto storico e istituzionale come l’auto. E infiamma i consumatori – a questo proposito, il recente caso Volkswagen di settembre e il potenziale impatto sull’immagine dell’azienda tedesca buttano letteralmente benzina sul fuoco del cambiamento.

Questa chiamata alle armi al nuovo capitalismoimprenditoriale, che va progressivamente a sostituirsi al capitalismo manageriale, induce l’azienda a trasformarsi progressivamente in un’entità più dinamica e adattiva, per non essere spiazzata da nuovi entranti (le Tesla e le Uber dell’esempio appena riportato) o da operatori di altri settori (Google e Apple).

La domanda quindi da porsi è come si trasforma un’azienda medio-grande da manageriale a imprenditoriale? Come cioè si trasferiscono gli stimoli di startup, dotate di flessibilità, creatività e capacità di innovazione, a una struttura aziendale organizzata per funzioni o per divisioni e con una storia accreditata dai successi passati? Come si fa – utilizzando un’espressione abusata, ma metaforicamente molto efficace – a costruirsi una piccola Silicon Valley nel proprio recinto organizzativo e nell’ambito della propria visione strategica?

Paradossalmente, l’azienda medio-grande ben conosce l’imprenditorialità in quanto, salvo rare eccezioni, nasce essa stessa come startup. Quindi si tratterebbe semplicemente di farla riaffiorare al suo interno. Tuttavia, la crescita dimensionale e la divisione del lavoro cumulate nel suo percorso di crescita rendono spesso le aziende dei pachiderma, che fanno una fatica immensa a cambiare al passo con la dinamica disruptive che sta invadendo i settori. Più specificamente, vent’anni di letteratura ditechnology and innovation management ci dimostrano che la logica funzionale e divisionale non solo allontani progressivamente la grande azienda dalla dinamica del settore, ma la renda addirittura resiliente al cambiamento perché produce e sviluppa le stesse forze che la rendono inerte nel lungo termine. Per liberare energia innovativa, deve quindi ridefinire i confini della sua vera imprenditorialità per renderla effettiva e attivare quella che oggi è chiamata corporate entrepreneurship.

Due trend in via di costante consolidamento che favoriscono la corporate entrepreneurship prendono il nome di corporate venture capital e business development.

Il corporate venture capital nella sua accezione più elementare implica investire in aziende o business collegati che aiutino a stimolare l’innovatività dell’azienda, diversificandone il rischio. In un’accezione più ampia implica l’attivazione di una vera e propria funzione di venture capital, che lavora all’interno dell’azienda e sviluppa attività sistematica di scouting e di acquisizione di brevetti, persone, e piccole aziende che possano essere di interesse per il futuro del proprio settore o progetto aziendale. Il cervello creativo della Disney, a cui si deve il film Inside Out che sta spopolando in questi giorni in tutto il mondo, si chiama Pixar e deriva da un’importante acquisizione fatta dalla Disney a cui venne data autonomia nello sviluppo della frontiera creativa. Attraverso il corporate venture capital, l’azienda può accedere a quelle competenze che le permettono di fare un’innovazione diversa da quanto consentono la propria conoscenza e la propria traiettoria tecnologica e di mercato.

Il secondo trend si chiama business development, ovvero la creazione di un’unità aziendale separata dal resto delle funzioni e divisioni con l’obiettivo di attivare nuove forme di business. La multinazionale del largo consumo Procter & Gamble ha progettato un’intera divisione aziendale, Connect&Develop, per ideare e lanciare prodotti fuori dal recinto delle competenze organizzative. In questi anni ha raggiunto risultati straordinari dal punto di vista dell’innovazione, soprattutto se messi a confronto con le originarie traiettorie di innovazione aziendali[1].Similmente, la divisione Enterprise Business Opportunities di IBM ha permesso di mettere in luce già 10 anni fa la necessità di abbandonare il tradizionale sistema di computing basato su hardware e software e di transitare verso il cloud – questo quando il cloud non si era ancora realizzato. IBM conseguentemente cedette a Lenovo la sua produzione di pc e transitò progressivamente verso sistemi di cui oggi è leader nel business to business[2]. In generale, attivare una funzione o divisione separata e dedicata alla corporate entrepreneurship rivestendola dei principi e delle logiche strategiche e organizzative di una startup aiuta a spargere i semi dell’innovazione disruptive anche all’interno dell’azienda.

A questi due trend comincia oggi ad affiancarsi una visione estrema di corporate entrepreneurship. Tale visione implica organizzarsi come una startup abbandonando la logica funzionale e divisionale tipiche della media e grande impresa e liberando energie imprenditoriali a livello di singoli individui con strutture più piatte, organizzate per progetto e sistemi di incentivazione individuali che favoriscano l’innovazione. I soliti sospetti del digitale, tra cui in particolare Google, Amazon e Apple, stanno facendo scuola in questa direzione. Il recentissimo e affascinante progetto di Prime Now, ovvero il nuovo business model di Amazon basato sull’idea di ordinare prodotti e consegnarli entro massimo 60 minuti nell’area di Manhattan, deriva proprio dalla logica imprenditoriale che porta costantemente l’azienda di Seattle a cercare nuove modalità per deliziare i clienti e servirli nel migliore dei modi. Interessante anche notare che il project leader dell’iniziativa, precedentemente manager delle operations in Amazon, è divenuto tale avendo vinto una gara interna basata su cosa deve fare Amazon per migliorare il servizio al cliente.

La strada di una corporate entrepreneurship “totale” dischiude soluzioni strategico-organizzative sperimentali, estremamente affascinanti in cui i singoli diventano veri e propri agenti del cambiamento grazie a sistemi di governance e incentivo volti a internalizzare sempre di più l’innovazione. Ecco quindi che gli executive/manager (ovvero gestori) diventano veri e propri innovator/entrepreneur (innovatori). Come si può immaginare, un cambiamento strategico e organizzativo di questa natura non è né semplice né avulso da rischi e resistenze, ma rappresenta la via più naturale per intraprendere un vero e proprio percorso evolutivo.

Come si costruisce quindi la Silicon Valley in azienda? Come ha ricordato recentemente nel suo blog la collega Rita McGrath, certamente non andando a farsi fare un selfie di fronte alla sede di Facebook o chiedendo di incontrare Musk, Cook o Andreessen nei business trip nella Valley – viaggi che sono peraltro diventati un vero e proprio business per manager curiosi di comprendere come ci si può trasformare in un’azienda-Uber. Il percorso è arduo, ma tecnicamente molto semplice e richiede una revisione delle logiche aziendali che abbiamo ereditato. Così facendo, la corporate entrepreneurship nella sua forma più olistica, o nelle sembianze delle unità di business development e corporate entrepreneurship, potrà forse ridurre il rischio di rimanere spiazzati dalla prossima innovazione disruptive nell’ambito del proprio settore.

1

E. Prandelli, M. Sawhney, G. Verona, Collaborating to Create: Conceiving and Marketing Products in the Networking Age, Edwrad Elgar, 2009.

2

C. O’Reilly III, B. Harreld, M. Tushman, “Organizational ambidexterity: IBM and emerging business opportunities”, California Management Review, 2009, 51(4), pp. 75-99.