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2015/3

Gianni Canova Severino Salvemini

Latin Lover. La manutenzione del mito

Come nascono i miti? Come si formano le leggende? Chi li tramanda? Chi li conserva? Cosa li mette in crisi? Lavorando sulla mitologia costruita attorno a un divo del cinema italiano degli anni d’oro, Latin Lover di Cristina Comencini offre interessanti spunti di riflessione anche sulla funzione delle mitologie in ambito aziendale.

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Latin Lover

Regia: Cristina Comencini

Interpreti: Virna Lisi, Marisa Paredes, ?Francesco Scianna

Italia, 2015

 

Più che un attore, un mito. Una leggenda vivente. Saverio Crispo (Francesco Scianna), divo amatissimo del cinema italiano, è stato l’icona emblematica del latin lover: il gran seduttore, il fascinoso rubacuori, il generoso dispensatore di sorrisi calienti e di sguardi malandrini. A 10 anni dalla sua scomparsa, le sue due ex mogli (Marisa Paredes e Virna Lisi, alla sua ultima apparizione sullo schermo) e le svariate figlie (tutte femmine!) che ha avuto da donne sempre diverse, in parti differenti del mondo (dalla Francia alla Spagna, dall’Italia agli Stati Uniti) si danno appuntamento nell’antica casa pugliese in cui il latin lover è nato e cresciuto per rendere omaggio alla sua memoria con una celebrazione pubblica che dovrebbe coinvolgere l’intero paese e tutti i media locali. Ma quando si ritrovano tutte insieme, le donne si rendono conto che anche i miti hanno bisogno di “manutenzione”. E che reggono nell’immaginario collettivo solo fino a quando si riesce a tener viva la curiosità popolare intorno alla loro vita (e alla loro leggenda). Ambientato nel mondo del cinema, e animato dall’intento dichiarato di rendere omaggio a quella stagione irripetibile – gli anni Sessanta – in cui il cinema italiano era il più bello del mondo, Latin lover di Cristina Comencini ci offre una metafora quanto mai suggestiva su uno dei temi chiave nella riflessione attuale sui modi e sulle forme dell’organizzazione aziendale: il tema del mito legato alla figura del fondatore dell’azienda e – conseguentemente – il tema dei modi in cui i successori possono (devono?) provvedere alla manutenzione del mito per evitare che si sgretoli a poco a poco, corroso dal tempo e dall’oblio.

 

G.C. La prima cosa che il film di Cristina Comencini ci dice con grande chiarezza è che un mito si colloca al crocevia di tante narrazioni individuali: Saverio Crispo è al centro di un infinito numero di racconti – non sempre coincidenti – che riguardano la sua vita e le sue gesta. Tutte le sue donne – mogli, figlie, amanti – parlano di lui a partire da un’angolazione diversa. Conoscono e raccontano particolari, dettagli o episodi sconosciuti alla altre, e la figura del padre-marito-amante diventa tanto più gigantesca quanto più è avvolta da questa fitta rete di narrazioni che la riguardano.

 

S.S. Il modello resta sempre quello di Quarto Potere di Orson Welles: per afferrare la statura gigantesca del magnate Charles Foster Kane, bisogna accorpare le narrazioni che gli altri hanno fatto su di lui. È la dimensione corale delle narrazioni che fonda la leggenda. Un solo discorso encomiastico è apologia, cento sono mitologia. E ciò vale, paradossalmente, anche se alcuni di questi discorsi sono critici e negativi. L’affastellamento di narrazioni genera leggende. Al cinema come nella vita…

 

G.C. La leggenda però – così almeno accade nel film – implica anche alcuni aspetti non dico di falsificazione ma quanto meno di dissimulazione. Non è tutto vero, quel che si dice intorno al mito. Alcune “verità” vengono nascoste, o taciute. Altre credenze vanno invece enfatizzate. C’è una dimensione teatrale e di messinscena che non va sottovalutata.

 

S.S. Questo aspetto è particolarmente evidente nelle organizzazioni aziendali: gestire la corporate culture significa saper dosare bene credenze, visioni, aneddoti ed episodi tramandati dai vecchi lupi di mare ai pivellini, e fare in modo che lo storytelling aziendale finisca per valorizzare gli aspetti positivi, lasciando in ombra gli scheletri nell’armadio. Un mito, in fondo, è come un quadro. Gli osservatori lo rimirano incantati, convinti che l’eccellenza del dipinto sia indiscutibile e pertanto da tramandare alle generazioni che seguono. I più spavaldi e iconoclasti si permettono però talvolta di staccare dal muro l’opera d’arte ed ecco che sorprendentemente si notano sotto alcuni buchi nella parete. Di colpo si acquisisce la consapevolezza che il quadro serviva anche per coprire i guasti del muro…

 

G.C. Metafora potente, non c’è dubbio. Ma mi chiedo: chi è in azienda l’autore del quadro? Nel film della Comencini il professionista delegato a celebrare il mito (il critico cinematografico interpretato da Toni Bertorelli) è assolutamente inadeguato. È incapace di scaldare i cuori. Il suo protocollo discorsivo è corretto ma algido. Poco appassionante, scontato. È solo quando prende la parola l’amico – lo stuntman – che era affettivamente legato a Saverio che il pubblico si scalda. Forse bisogna amare i miti e le leggende per fare in modo che siano amati anche dagli altri?

 

S.S. In questo probabilmente la realtà aziendale è lontana dalla situazione narrata dal film. In azienda il mito è prodotto dalla tradizione e – ovviamente – da un cantastorie. Tradizionalmente, il cantastorie era l’uomo delle PR, ma sempre più spesso è l’amministratore delegato in prima persona. Marchionne è forse il caso più emblematico. Nell’attuale fase di CEO Capitalism, è il CEO che innesca racconti e narrazioni, spesso infarcendoli di osservazioni e notazioni personali. Chi lo ascolta poi può anche – è già successo – riutilizzare la dimensione mitica e rivendere il mito per la propria carriera futura…

 

G.C. Il film pone però anche il tema dell’eredità del mito. Della sua gestione nel tempo. Nel film, le “eredi” sono nervose e litigiose. Tutte rivendicano il “proprio” Saverio come unico. Una delle figlie (quella interpretata da Angela Finocchiaro), per la verità, è la delegata ufficiale alla conservazione della leggenda: presidente della fondazione intitolata a Saverio, è un po’ la vestale della sua memoria, anche se poi ha bisogno della razionalità del personaggio di Neri Marcorè per cercare di tenere sotto controllo la situazione. Quasi a dire che per innescare il mito servono racconti emozionali, ma per tenerlo vivo è poi indispensabile una gestione razionale.

 

S.S. … e proprio su questo doppio binario ragione/emozione si innesta quella che secondo me è la domanda chiave di tutta la questione. Qual è il livello giusto e accettabile di mitologia in azienda? Bisogna sempre accettare un certo tasso di falsificazione perché il falso comunque ingaggia, motiva e sprona? Oppure in certi casi è più opportuno o necessario togliere il quadro e lasciar vedere i buchi che ci sono sotto?