E&M

2007/3

Giuseppe Soda

Fannulloni o disorganizzati? Viaggio nella produttività che non c’è

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Con l’impeto caratteristico delle folgorazioni – un po’ come nell’indimenticabile sequenza del film The Blues Brothers in cui un J. Belushi folgorato “vede la luce” entrando in chiesa – gli opinion maker, la politica e gli imprenditori hanno ricominciato a parlare di produttività, rianimando un concetto – e un problema – che per decenni era pressoché scomparso dagli articoli, dai convegni e dai dibattiti.

I contenuti al centro della riflessione nell’economia e nel management si caratterizzano per corsi e ricorsi, ma non sono neppure immuni al fascino delle mode che non sempre riflettono fedelmente i problemi del paese o le soluzioni in grado di incidere davvero sulla nostra capacità competitiva. Finalmente si torna ad affrontare una questione importante, che interessa il futuro del nostro sistema economico molto più di quanto non abbiano fatto le interminabili discussioni sulla corporate governance o sui patti di sindacato. Ritorna dunque nell’agenda della politica economica e delle imprese la questione della produttività, ponendo in luce come la competitività sia una partita difficile, che non si gioca solo sul piano dei grandi cambiamenti istituzionali, della politica economica e delle infrastrutture ma, giorno per giorno, anche nel rendere più efficiente il funzionamento delle imprese e delle istituzioni pubbliche.

La recente inaspettata crescita economica, il nuovo impulso nell’export, la rivitalizzazione su base internazionale del tessuto delle medie imprese sono tutti elementi che testimoniano un’oggettiva capacità del sistema produttivo nazionale nell’affrontare le sfide cruciali poste dalla globalizzazione. È verosimile sostenere che si tratti di elementi non effimeri, ma di segnali di un recupero “strutturale” nella nostra capacità competitiva. Tuttavia, le ombre sono ancora molte e non si tratta solo di ombre “cinesi”.

I dati in materia di produttività sono sotto gli occhi di tutti. Secondo le rilevazioni OCSE, in Italia nel triennio 2002-2004 la produttività per ora lavorata è calata, in controtendenza rispetto a tutti gli altri paesi, fatta eccezione del solo Portogallo. Nel 2002 la produttività per ora lavorata è scesa dell’1,28%, nel 2003 ha accusato un’ulteriore contrazione dello 0,38% e nel 2004 un parziale recupero pari allo 0,73%, mentre nei quindici paesi dell’Unione Europea cresceva dell’1,49%. Nel 2006, nonostante la crescita del PIL, la produttività è rimasta al palo con un calo dello 0,10. Gli economisti hanno da tempo affrontato il problema e proposto chiare azioni di politica economica. Tra queste, vale la pena di ricordare: il cambiamento nel modello di specializzazione settoriale italiano per ridurre l’eccessiva dipendenza dai settori più esposti alla competizione globale e all’aggressività dei paesi emergenti; una politica di consistenti investimenti nella ricerca e nell’innovazione.

Diversa è una prospettiva manageriale del fenomeno, più attenta ai problemi e alle opportunità per le singole organizzazioni e imprese che contribuiscono alla competitività del nostro sistema economico. Anche in questo caso, tuttavia, i dati non sono molto incoraggianti. In una recente ricerca svolta presso la SDA Bocconi, attraverso un innovativo calcolo della produttività generata dal capitale umano delle prime cento imprese industriali quotate alla borsa di Milano (Barber, Strack 2005), abbiamo osservato una situazione preoccupante che rispecchia i dati macroeconomici denunciati dagli economisti per l’intero sistema economico. L’indicatore di produttività analizzato segnala, specie per le imprese caratterizzate da un peso rilevante del costo del lavoro in ragione di un massiccio impiego di capitale umano – le cosiddette people firms –, una preoccupante relazione tra la capacità del capitale umano nel generare valore e i costi sostenuti per finanziarlo. In particolare, dai dati emerge come le imprese sembrino più capaci di generare efficienza attraverso il capitale tecnologico che non attraverso il fattore lavoro (Dossi, Soda 2007).

È auspicabile che sul problema specifico della produttività all’interno delle imprese si possa avviare un dibattito aperto e proficuo, anzitutto con l’obiettivo di sviluppare una conoscenza più strutturata e affidabile delle cause di un fenomeno che pure è molto complesso. Per le organizzazioni che operano nel campo pubblico le danze sono state aperte, anche in forme molto provocatorie come la gravità del fenomeno richiede. Non è casuale che la riscoperta della questione produttività abbia trovato una sponda molto efficace, anche sul piano della comunicazione pubblica, in una nuova guerra che fa impallidire, almeno nel nostro paese, l’ormai dimenticata “guerra dei talenti”. Si tratta della “guerra ai fannulloni”, specialmente quelli a carico delle finanze dello Stato (Ichino 2006). In una discussione che si è fatta via via molto animata sono emerse situazioni al limite del paradosso. Se, da un lato, si richiama alla necessità di atteggiamenti e politiche più severe nei confronti dei dipendenti nullafacenti e dell’improduttività diffusa, dall’altro, molte amministrazioni pubbliche dichiarano la loro assoluta impotenza verso un miglioramento delle prestazioni e dei livelli di servizio, spesso in ragione di organici sottodimensionati. È questo, per esempio, il caso dell’amministrazione della Giustizia, che pure rappresenta un settore cruciale, non solo per i livelli di civiltà della nazione ma anche per l’attrattività del sistema paese verso gli investimenti: chi investe in un sistema produttivo dove una controversia contrattuale si risolve, se va bene, dopo dieci anni? Non casualmente, nella graduatoria della Banca Mondiale relativa alle procedure burocratiche e amministrative connesse con l’attività di impresa, l’Italia occupa la settantesima posizione, penultima fra i paesi dell’OCSE.

Comunque sia, i dati sulla produttività parlano da soli e sono effettivamente imbarazzanti. Secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, i dipendenti della Pubblica Amministrazione lavorano circa dieci mesi l’anno. Si tratta di valori medi, ma l’impressione negativa che se ne ricava è indiscutibile. Ai ventinove giorni di ferie medi si aggiungono circa diciannove giorni tra malattia e permessi retribuiti. Il tutto quadra con due giorni e mezzo di altre assenze. Il totale fa più di cinquanta giorni in media in un anno. Quello dei giorni lavorativi è solo uno degli aspetti più visibili del problema, ma occorre anche ricordare la piaga dell’assenteismo, gli abusi, i privilegi incomprensibili e i sistemi di ricompensa totalmente disancorati da qualsiasi logica meritocratica. Il fenomeno è dunque evidente e ben conosciuto. Nondimeno, le spiegazioni circa le sue cause, almeno quelle apparse nel dibattito ospitato dai mezzi di comunicazione di massa, appaiono superficiali e orientate verso una lettura quasi “antropologica” del fenomeno. In sostanza, è come se alle radici della “fannulloneria” vi sia una certa natura umana propensa all’opportunismo, al vivere sulle spalle altrui, all’ozio improduttivo invece che al lavoro. Se questa spiegazione fosse vera, verrebbe da chiedersi per quale ragione socio-demografica – o per la particolare insipienza dei sistemi di selezione del personale – i fannulloni si concentrino in quote così significative proprio nella macchina pubblica. Una lettura che focalizza il problema della produttività sulle “persone” sposta l’attenzione da una questione più complessa, per nulla secondaria, che non riguarda tanto il chi, cioè se i lavoratori e gli impiegati siano fannulloni o meno, ma cosa essi facciano, quali attività e compiti svolgano. Per chiarire questo punto è forse utile ricorrere a un piccolo aneddoto esemplificativo. Mi è capitato di visitare un importante ministero chiamato a svolgere l’amministrazione di una funzione cruciale dello Stato. Per due direttori generali ho osservato la presenza di dieci (10) addette/i chiamate/i a svolgere funzioni tipiche di una segreteria (agenda dei dirigenti, filtro telefonate, corrispondenza, prenotazione sale riunioni ecc.). È quasi pleonastico sottolineare che i ritmi di lavoro erano molto tranquilli, che i quotidiani spopolavano, che una radio, a volume decisamente alto per un luogo di lavoro, diffondeva nell’aria canzonette rasserenanti. Chiedersi se le persone operanti in quel contesto siano o meno dei fannulloni è importante, ma occorre anzitutto capire se il lavoro che sono chiamate/i a svolgere sia utile, contribuisca a migliorare i servizi offerti, aggiunga valore. Non è affatto da escludere che quelle persone dispongano di competenze, dedizione al lavoro e motivazioni che in altre attività e mansioni potrebbero essere molto utili. Anche il più ostinato stacanovista servirebbe a ben poco se fosse impegnato in mansioni e attività senza alcuna utilità e valore rispetto agli obiettivi della propria organizzazione.

In sostanza, si discute poco delle cause organizzative che determinano la scarsa produttività, tanto nel sistema pubblico quanto in quello privato. Al contrario, esistono ampi margini di miglioramento nei livelli di efficienza e di creazione di valore attraverso un potenziamento delle capacità di organizzazione delle attività e dei processi svolti nelle imprese e nelle amministrazioni pubbliche. In verità, si tratta di una tesi non particolarmente originale alla quale ha fatto esplicito riferimento, tra gli altri, anche il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nello scorso maggio parlando della crisi italiana di produttività: “A causa del ritardo nell’adeguamento della capacità tecnologico-organizzativa delle imprese e del sistema, la produttività totale dei fattori si è ridotta, caso unico fra i paesi industrializzati” (Draghi 2006, p. 8).

Indicherò a seguire alcune potenziali cause “organizzative” del problema produttività che segnalano il “mancato adeguamento” della capacità organizzativa al quale fa riferimento il governatore della Banca d’Italia. Queste cause poco hanno a che fare sia con le forme d’impiego flessibile del lavoro sia con la psicologia individuale e la sociologia dei fannulloni; al limite, contribuiscono a moltiplicarne i danni.

Anzitutto, i profili reali di responsabilità dei dirigenti sono sovente inesistenti. Non si può davvero parlare di responsabilità in assenza di chiarezza di obiettivi, di risorse e di un sistema di misurazione delle prestazioni, e dei relativi meccanismi di premio e sanzione, legati al raggiungimento dei risultati. In secondo luogo, sono largamente diffuse modalità di progettazione delle strutture di organizzazione e dell’organizzazione del lavoro disancorate da qualsiasi tecnica fondata sull’efficienza.

Dominano logiche di organizzazione fondate generalmente sul “buon senso” invece che sulle conoscenze e le metodologie strutturate di cui pure la materia dispone ampiamente. È tanto incomprensibile quanto diffuso il ragionamento secondo il quale, mentre per la valutazione di un investimento o per progettare un sistema di reporting direzionale si avverte giustamente il bisogno di conoscenze e tecniche ben strutturate, per assumere decisioni sull’organizzazione sia spesso sufficiente un tocco di sano buon senso e un po’ di esperienza. Eppure, la progettazione delle mansioni, dei sistemi di organizzazione del lavoro, la definizione delle responsabilità, la progettazione del sistema dei premi e delle sanzioni, la definizione delle regole, delle procedure e delle deleghe, la progettazione dei meccanismi di coordinamento e integrazione sono tutti aspetti che influenzano in modo determinante i livelli di efficienza di qualsiasi organizzazione, pubblica o privata, orientata al profitto o not for profit. Non si capisce per quale ragione rinunciare alle tecniche che supportano una progettazione organizzativa più razionale e ancorata a criteri di efficienza economica.

Vorrei qui affermare che il tema della produttività, prima di essere una questione sindacale o di gestione del personale in senso stretto, è un problema manageriale e organizzativo. Al contrario, si corre il rischio di osservare la questione produttività da una prospettiva parziale, costruita solo attorno alle questioni motivazionali, alla ricerca dei buoni o dei cattivi negli uffici e nei luoghi di lavoro, senza affrontare di petto il tema dell’organizzazione delle attività e dei processi di generazione del valore per clienti o utenti. Certo i due aspetti sono connessi, ma esistono molti margini di miglioramento dell’efficienza attraverso una migliore organizzazione delle attività e dei processi, nel ripensare in sostanza a “come” le imprese e le amministrazioni pubbliche generano risposte competitive per i propri clienti e utenti.

Le conoscenze e le tecniche su come riorganizzare attività e processi in modo più efficiente ed efficace sono sperimentate e consolidate da lungo tempo e consentono di operare su molti piani:

a. agire sugli sprechi, eliminando le attività che non aggiungono valore e riaggregandole secondo logiche di ottimizzazione dei costi;

b. testare innovazioni nelle connessioni tra le attività all’interno dei principali processi, per esempio rompendo la logica del “reparto” e della sequenza e avviando le attività il più possibile in parallelo e investendo nella comunicazione e nell’informazione;

c. separare le attività standardizzabili e routinizzabili da quelle più complesse e variabili, investendo pesantemente nell’automazione delle attività di routine;

d. investire nei colli di bottiglia potenziandone la capacità di lavoro laddove le attività svolte risultano critiche e ad elevato valore aggiunto, eliminandoli laddove non creano valore;

e. raggruppare attività e processi sotto la responsabilità e il controllo di unità organizzative seguendo logiche che permettano lo sfruttamento delle economie di scala e di specializzazione, riducendone i costi di “produzione” e svolgimento;

f. modificare la logica del controllo, passando da controlli puntuali a controlli globali su parametri legati alla qualità e all’efficienza del servizio, legando ad essi e alla misurazione dei risultati i necessari meccanismi di premio e sanzione;

g. raggruppare attività e processi sotto la responsabilità e il controllo di unità organizzative in modo da favorire la creazione di valore lungo i processi, migliorando così la qualità e riducendo i tempi di risposta per clienti e utenti.

Per quanto possa essere percepita come rigida, dietro la prospettiva di riorganizzare attività e processi e solo successivamente affrontare le questioni legate al lavoro si cela un forte potenziale di negoziazione positiva con i sindacati. Per esempio sul tema cruciale della determinazione e del governo degli eccessi – o dei difetti – di organico. Infatti, un processo di rigenerazione dell’efficienza fondato sul ripensamento delle attività e dei processi e su una diversa organizzazione non parte necessariamente dall’ipotesi di sovra o sottodimensionamento degli organici. Questi sono, al limite, solo uno dei possibili esiti di una riorganizzazione, e neppure uno dei più scontati, sicuramente non la sua premessa.

Si tratta di un punto importante che dovrebbe aprire una strada diversa nel confronto con i sindacati, più razionale e innovativa e meno intrisa di ideologia. Il tema degli esuberi, nella Pubblica Amministrazione come in altri contesti, va visto sotto la luce del ripensamento complessivo dei modelli organizzativi e non come la via più semplice – che poi si rivela spesso quella più pericolosa – per ridurre i costi.

La determinazione degli eccessi o dei difetti di organico va dunque specificata partendo dalla riorganizzazione delle attività e dei processi in modo da ricreare condizioni operative di creazione efficiente di valore, non dalla reazione più immediata alla richiesta o all’esigenza di riduzione dei costi. Bisogna quindi evitare, una volta per tutte, di cadere nella trappola di far coincidere l’avvio di un piano di riorganizzazione con quello della gestione degli esuberi, che rappresenta solo uno dei possibili esiti.

Secondo questo schema, ciò che risulterebbe eventualmente in eccesso, prima delle persone, sono le attività a basso valore, quelle ridondanti o improduttive. Questo modo di affrontare il problema permetterebbe, inoltre, di sfuggire alla trappola del “licenziare i licenziabili” che in genere in Italia diventa “prepensionare i prepensionabili”.

Poco importa, infatti, che i dipendenti in questione siano motivati, dispongano di conoscenze critiche e difficilmente replicabili per attività e processi a elevato valore aggiunto, purché abbiano raggiunto la soglia di anzianità per il prepensionamento. Si tratta ovviamente di un modo di procedere insensato, ma ancora molto diffuso al punto che il Consiglio Europeo di Stoccolma del 2001 sottolineava “l’importanza di un cambiamento radicale delle misure finora adottate, ossia l’abbandono di una cultura del prepensionamento anticipato”.

Con un approccio che parte dall’innovazione organizzativa, la discussione con il sindacato si potrebbe spostare sul piano dei vincoli posti ai cambiamenti invece che su quello delle sue premesse, aprendo un confronto serio su temi quali la mobilità, la modifica delle mansioni, il trasferimento delle persone da un’amministrazione a un’altra, lo sviluppo delle competenze e gli investimenti nella formazione, l’innovazione tecnologica. In aggiunta, la ricerca svolta sul tema segnala che a seguito di processi di riorganizzazione radicali, gli effetti non sono solo quelli della riduzione degli organici ma di una maggior incidenza delle politiche di allargamento delle mansioni, più consistenti investimenti in formazione, superiori livelli di autonomia e delega.

In sostanza, l’evocato e decisamente ipotetico licenziamento di “fannulloni” risolverebbe solo parzialmente il problema della produttività dei luoghi di lavoro in assenza di un radicale processo di miglioramento di tutta l’organizzazione. Contesti organizzativi burocratizzati, inefficienti, caratterizzati da attività inutili, ridondanti, replicate, senza sistemi di controllo e misurazione delle prestazioni e annessi meccanismi incentivanti continuerebbero a essere tali anche senza i fannulloni.

In ogni caso la battaglia contro i fannulloni è una di quelle che meritano di essere combattute, non tanto per una ragione di impatto sull’efficienza, quanto per una motivazione di equità e per ribadire l’esigenza di una società fondata sulla meritocrazia.

Si è anche detto che questo tipo di cambiamento richiede una più profonda trasformazione culturale, che in genere significa un allungamento dei tempi di realizzazione e l’acuirsi dei conflitti, ragion per cui è meglio lasciar perdere e limitarsi a miglioramenti incrementali. Anche questo ragionamento è viziato all’origine e appare empiricamente debole. Una lezione importante in proposito ci viene dall’efficace adattamento nell’industria occidentale di molte innovazioni organizzative giapponesi, che pure erano considerate specifiche di quel contesto culturale, sociale e addirittura filosofico.

Per esempio, il modello industriale fordista era stato costruito sulla catena di montaggio in azione secondo una logica e un tempo sequenziale inesorabile. La logica produttiva Toyota portata alla luce a metà degli anni ottanta rovesciava questa logica. Se per le nostre fabbriche il tempo e la produzione non potevano tornare indietro data la rigida sequenzialità, per i giapponesi la logica era invece circolare e il flusso produttivo poteva girare invece di avanzare. Di qui i circoli di qualità, i team e le unità tecnologiche elementari e molte altre geniali innovazioni organizzative. Nonostante un imprinting culturale di partenza molto marcato, spinte dalla forza della competizione, queste idee sono entrate velocemente nei modelli industriali occidentali e hanno permesso un importante recupero di produttività rispetto ai concorrenti giapponesi, anche quando solo pochi anni prima le imprese europee lavoravano su livelli di produttività inferiori di più del 50% rispetto ai concorrenti asiatici (Womack, Jones, Ross 1991). È dunque da respingere senza esitazioni la tentazione di sostenere l’impossibilità “culturale” di migliorare l’efficienza in contesti organizzativi intrisi di cultura burocratica e chiusi all’innovazione e ai cambiamenti.

Il problema sin qui descritto non è confinato solo al campo pubblico. I margini di miglioramento nell’efficienza organizzativa nell’industria e nei servizi sono comunque molto elevati. La media azienda italiana, seppure dinamica e capace di portare sulle proprie spalle l’inversione di tendenza nella crescita, potrebbe acquisire nuovo slancio se ponesse comunque sotto osservazione la propria capacità organizzativa

In conclusione, è aperta una questione produttività che va osservata e affrontata sul versante delle singole organizzazioni e non solo su quello macroeconomico, pure molto importante. Il potenziamento della capacità di progettare organizzazioni efficienti è una condizione di partenza cruciale. Chi scrive è convinto che l’Italia, prima di essere un paese di fannulloni o dove i fannulloni la fanno sistematicamente franca, sia un paese molto disorganizzato, ed è proprio in queste condizioni che le posizioni di rendita, i privilegi, gli atteggiamenti corporativi, l’assenza di meritocrazia e i comportamenti opportunistici proliferano.

Riferimenti bibliografici

Si veda il pdf allegato.