E&M

2007/2

Gianni Canova Severino Salvemini

Il broker e il vignaiolo

Che rapporto c’è fra il mestiere di un cinico broker della City londinese e la rilassata attività di un vignaiolo provenzale? In apparenza, sono due mondi antitetici. Ma a volte le apparenze ingannano. Come dimostra Un’ottima annata - A Good Year, l’ultimo film del regista inglese Ridley Scott.

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Un’ottima annata. A Good Year

Regia: Ridley Scott

Interpreti: Russell Crowe, Albert Finney, Marion Cotillard

USA, 2006

Dalle atmosfere algide e ciniche della City londinese al sole caldo e sorridente della Provenza francese: è nello spazio compreso fra questi due poli che il broker Max Skinner (Russell Crowe), “squalo” del trading e della speculazione finanziaria, è indotto a ridefinire la propria identità non solo professionale ma anche umana ed esistenziale. Un’ottima annata - A Good Year di Ridley Scott, basato sull’omonimo romanzo di Peter Mayle (Edizioni Garzanti), racconta un classico nostos: la storia di un ritorno nei luoghi dell’infanzia e delle radici, in una tenuta provenzale (la Siroque) bagnata dalle luci dorate del Mediterraneo, là dove da piccolo il rampante protagonista aveva appreso dal vecchio zio Henry l’arte del gioco, del rischio e della vita. Ora che lo zio è morto, Max viene sollecitato da un notaio a recarsi sul posto per assistere alla lettura del testamento e per prendere possesso dell’eredità. Abituato a non lasciare mai l’ufficio, e a presidiare la sua scrivania come se fosse Fort Alamo assediato dagli indiani, il broker non ha nessuna voglia di prendersi quella vacanza forzata (“Non dire a nessuno che sono in vacanza: è peggio che essere morti!”, raccomanda preoccupato), e tuttavia parte per la Provenza convinto di poter risolvere tutto in meno di ventiquattr’ore. Non sarà così: il fascino del luogo, il riemergere di ricordi lontani e soprattutto l’incontro con un altro stile di vita lo indurranno a mettere in discussione le sue scelte e a ripensare criticamente alla scala di valori su cui ha costruito la sua vita. L’intreccio del film è abbastanza risaputo e prevedibile, i caratteri sono stereotipati quanto basta (la camerierina francese va in giro su una Due cavalli, il vignaiolo è un burbero dal cuore d’oro e così via). E tuttavia, pur nella sua stilizzazione di maniera (o, forse, proprio in virtù di questa…), il film di Ridley Scott offre un’ulteriore occasione per riflettere su come la figura del broker sia percepita nell’immaginario collettivo e sugli stereotipi con cui deve fare i conti. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Mi sembra che il film sia costruito su una forte struttura dicotomica, che contrappone i valori transazionali dell’ambiente finanziario – dove tutto è trading e commercio, è orientato ai risultati e lavora sul breve termine – ai valori tradizionali della campagna. Dove i tempi non sono brevi ma lunghi, dove la logica della speculazione è sostituita da quella della gratuità, dove la tradizione conta più del risultato immediato, dove la gerarchia dei ruoli conta più dell’apparente pariteticità, e dove persiste un senso di rispetto nei confronti dell’autorevolezza acquisita con l’esperienza che il mondo “moderno” della finanza sembra aver dimenticato.

G.C. Apparentemente è così. In questa chiave, il film di Ridley Scott mi pare molto sintomatico e rivelatore di una serie di pregiudizi (o di nostalgie) che ancora insidiano la percezione collettiva di certi ambienti e di certe figure professionali. Tutte le persone che si occupano di intermediazione mobiliare al massimo livello di speculazione sono rappresentate come disumane, ma anche come desiderose di cambiar vita e di tornare in una dimensione umana di tipo provenzale, al mito della terra, della campagna, del rapporto con la natura. È uno stereotipo, non c’è dubbio, ma non del tutto privo di riscontri oggettivi.

S.S. Se alludi al fatto che le colline del Chianti o le valli delle Langhe, per scegliere esempi di casa nostra, sono piene di maghi della finanza che a un certo punto hanno deciso di smettere e di vivere parte della loro vita in un’altra dimensione, non posso che darti ragione. Lo stereotipo ha un qualche fondamento nella realtà: come se il confronto quotidiano e stressante con l’economia dell’immateriale generasse per reazione il desiderio di tornare al massimo di materialità possibile, alla cura della terra o ad attività come la vendemmia, che sono tra le più dure e faticose per qualsiasi essere umano.

G.C. In questa prospettiva, una figura come quella dell’enologo presente nel film – che richiama per certi versi il grande enologo Michel Rolland del film Mondovino, di cui ci siamo occupati in una precedente puntata di “Fotogrammi” – diventa davvero una sintesi possibile fra i due mondi: da un lato mantiene un contatto con la terra, dall’altro orienta il mercato, lavora sulle marche, fa salire o scendere le quotazioni dei vitigni…

S.S. Sì, ma il problema è che il film di Scott non valorizza abbastanza questa figura e si limita a scavare fossati fra i due mondi antitetici che mette in scena. Da un lato gli ipercalvinisti della finanza, quelli che non vanno mai in vacanza, quelli che rinunciano alla pausa wc per non mollare un solo attimo la postazione, quelli che stanno in ufficio fino alle due di notte e parcheggiano l’auto nel garage aziendale in modo ben visibile per far sì che tutti possano vedere che qualcuno lì sta lavorando anche quando gli altri dormono, e così via. Dall’altro lato, invece, quelli che lavorano giocando, che si divertono e si realizzano e che in fondo non lavorano mai, si limitano a far lavorare gli altri. Come dice un detto provenzale citato nel film: “In Francia è sempre chi possiede la terra che fa il vino, non chi coltiva, chi vendemmia e così via…”.

G.C. Ecco: proprio questa battuta mi consente di provare a rovesciare un po’ il paradigma. E se la dicotomia che tu delineavi con tanta chiarezza all’inizio del nostro ragionamento fosse solo apparente? Se fosse, appunto, l’illustrazione di uno stereotipo che poi il film cerca di smontare e svuotare con il suo sviluppo narrativo? Come dire: alla fine, la morale suggerita da Un’ottima annata è che i due mondi non sono poi così diversi. In entrambi vince la stessa logica, piaccia o no. E poi: non è forse dallo zio vignaiolo che Max Skinner ha appreso la sua filosofia di raider vincente? È vero che all’inizio del film lo sentiamo dire frasi come “Vincere non è tutto. È solo l’unica cosa che conta”, ma poi scopriamo anche che la tattica della vittoria gliel’ha insegnata lo zio. Dopotutto, è proprio allo zio provenzale che si deve – rievocata in flashback – la battuta chiave del film: “Un uomo non impara niente quando vince. Perdere invece può indurre a grande saggezza. Il nocciolo della quale è capire quanto sia importante vincere”. Nella sua circolarità solo apparentemente tautologica, questa frase sintetizza alla perfezione il “percorso di formazione” messo in scena dal film.

S.S. In effetti, il finale del film non lascia il protagonista a crogiolarsi nelle dolcezze e negli ozi bucolici della vita contadina. Anzi: anche per risolvere i problemi di proprietà legati alla tenuta della Siroque, Max ricorre alla simulazione e all’inganno (la falsa lettera scritta alla figlia naturale dello zio). Usa cioè gli stessi metodi che applica sistematicamente nel suo lavoro di intermediario. Le apparenze ingannano, insomma: talora, anche dietro un’apparente e radicale alterità si può scoprire un’inattesa analogia.

G.C. Certo. “Dove c’è terra, c’è guerra”, come dice un personaggio del film. Nel trading finanziario come nella produzione di vino. E in un caso come nell’altro, “il segreto della ricchezza è uguale al segreto della comicità: i tempi”, sostiene una battuta della pellicola.

S.S. Un finanziere di grande successo diceva alcuni anni fa davanti alla platea degli studenti della Bocconi: “Il business finanziario è come lo swing del golf: entrare e uscire con il timing giusto”. Io però rimango scettico, sono troppo figlio del mondo delle ciminiere…