E&M

2007/2

Il contadino si era insospettito. Sollevò il coperchio di una vasca che raccoglieva acqua piovana e il tipo rintanato lì dentro rispose così alla sua sorpresa: “Sto correndo il giro d’Italia”. Era Luigi Malabrocca. Arrivare ultimo gli permetteva di indossare la famosa maglia nera, simbolo dell’ultimo in classifica. Anche il bizzarro cognome sembrava calzare bene ai suoi obiettivi sportivi. Nel 1946 Gino Bartali gli diede più di quattro ore di distacco. L’anno dopo, Fausto Coppi gliene inflisse più di sei.

Si nascondeva nei fienili, nelle cantine. Una volta approfittò di una foratura, entrò in un’osteria, accettò l’invito a cena di un amico che gli doveva mostrare una particolare attrezzatura per la pesca.

Arrivare ultimo, senza però disdegnare i traguardi volanti, era raffinata strategia. Tutt’altro che scadente, Malabrocca ha vinto 138 corse, di cui 15 da professionista. Si aggiudicò, tra l’altro, la Parigi-Nantes del 1947, facendo esclamare all’Equipe, il giornale sportivo francese: “La lanterna del Giro illumina Parigi”. Nel 1951 e nel 1953 fu campione italiano di ciclocross. La maglia nera gli permetteva premi sostanziosi. Aveva via libera per puntare a vincere i premi volanti ed emozionava spettatori anonimi e intere scolaresche. Riusciva a portare a casa damigiane di vino, salotti, maialini vivi, a volte anche del denaro.

Puntava ad arrivare ultimo anche perché si divertiva. Portò nel ciclismo una vampata di spensieratezza. Siamo ai tempi epici, quando anche il doping presentava risvolti esilaranti. In un ristorante, Malabrocca infila nel bicchiere del cameriere più imbranato due pastiglie della famosa simpamina. In un attimo il tapino si scatena in una serie ubriacante di mossette, compiendo prodigi di equilibrio e di celerità con vassoi e bicchieri, sotto gli occhi increduli dei colleghi e dei clienti. Il più stupito è il direttore dell’hotel, il quale non sa capacitarsi della improvvisa metamorfosi. “Gli abbiamo dato queste due pastigliette, è una sostanza fatta apposta per i camerieri. Potremmo fornirne una buona dose, se ci mettiamo d’accordo sul prezzo.” Prima della partenza di una semitappa Malabrocca droga il gatto del ristorante, sbriciolandogli una pastiglia di eccitante in un bocconcino di carne. Accade il finimondo: la povera bestia è come impazzita. Il pelo ritto, le pupille dilatate e fisse, balza su un lampadario e si libra nell’aria avvitandosi in funambolici salti mortali. Si scaglia sulla vetrina del bar mandando in frantumi una ventina di bottiglie prima di sparire come un siluro tra gli sguardi esterrefatti dei passanti.

La prassi della maglia nera, il cui ricordo ancora permane, durò pochissimi anni. Malabrocca dovette inventare qualcos’altro per sopravvivere. Persino una conversione. La sua famiglia era di religione evangelica. Quando sì sposò gli somministrarono in un colpo solo tre sacramenti: la prima comunione, la cresima e il matrimonio. E due viaggi di nozze, come diceva lui: uno dalla casa alla chiesa, l’altro dalla chiesa alla casa.

Di lui scrissero in tanti, da Vasco Pratolini a Dino Buzzati. Amicissimo di Fausto Coppi, non riuscì a indovinarne il genio. Quando, giovanissimo, corse con lui per la prima volta, si disse: “Se questo qui riesce a finire una corsa, io vinco il Giro d’Italia”. Non fu un profeta ma divenne un mito. Scomparve l’anno scorso proprio nei giorni in cui Junus, l’economista del Bangladesh che ha dato voce ai diseredati inventando il microcredito, vinceva il Nobel per la Pace. Sono due modi di guardare il mondo con l’ottica dell’ultimo in classifica, svelando, a noi distratti, la prospettiva dei meno fortunati.