E&M

2007/2

Andrea Sironi

Governance e assetti proprietari nel mercato bancario europeo

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Il 2006 può considerarsi, per il sistema bancario italiano, un altro anno sostanzialmente positivo dal punto di vista dei risultati economici. una recente ricerca di Assoneb, coordinata Da Cristiano Zazzara, basata sull’esame dei risultati relativi ai primi tre trimestri conseguiti dai principali gruppi bancari evidenzia una crescita sostenuta degli impieghi, un aumento dell’efficienza operativa, un’evoluzione positiva della qualità del credito e un sostanziale incremento della redditività. In particolare, il miglioramento della redditività del sistema bancario italiano che ha contraddistinto il 2005 è proseguito anche nel 2006, con una redditività del patrimonio (ROE) salita a oltre il 15%. Alla base di questo risultato positivo non vi è solo la dinamica favorevole della congiuntura economica e dei mercati finanziari, che ha consentito un aumento dei fondi intermediati, ma anche un significativo recupero di efficienza, come dimostrato da un cost-income ratio (il rapporto fra costi operativi e margine di intermediazione) che si è ridotto di oltre due punti percentuali.

Anche la qualità dell’attivo è sensibilmente migliorata, con un’ulteriore riduzione del rapporto fra sofferenze e impieghi. Il 2006 rappresenta anche l’anno della svolta della vigilanza, con una Banca d’Italia che si limita a un ruolo di arbitro che controlla il rispetto delle regole – oggettive e uguali per tutti – ed evita dunque di assumere la regia di un processo di concentrazione considerato da tutti gli osservatori necessario affinché le nostre banche possano risultare competitive nel mercato europeo.

Liberate da un regista troppo invadente e forti di risultati economici positivi, le banche italiane possono dunque intraprendere la via della crescita esterna mettendosi alla caccia di banche di altri paesi europei. In realtà, tuttavia, le principali operazioni di aggregazione registrate nel corso dell’anno che si è chiuso da poco sono domestiche (fra le principali la fusione Banca Intesa e San Paolo IMI e l’acquisizione di Banca Popolare Italiana da parte di Banca Popolare di Verona e Novara) oppure escono dai confini europei, come è il caso di un’importante recente acquisizione realizzata da San Paolo IMI in Egitto.[1]

Cosa impedisce dunque la realizzazione di operazioni di aggregazione di natura europea, capaci di contribuire alla costruzione di quel mercato bancario unico di cui da tanti anni si parla? Gli ostacoli sono numerosi e di diversa natura, ma uno dei più importanti e sovente sottovalutati è rappresentato dalla presenza, nel mercato europeo, di un insieme eterogeneo di assetti proprietari e di conseguenti modelli di governance piuttosto differenziati delle banche.

Così, per esempio, in alcuni paesi europei, primi fra tutti Germania e Francia, a fianco delle normali banche private governate secondo il modello tipico di una società di capitali e orientate alla creazione di valore per i propri azionisti, convive una quota rilevante di banche di natura pubblica, il controllo delle quali è ancora nelle mani di enti governativi centrali o locali, il cui obiettivo ultimo non è necessariamente la massimizzazione del valore. Analogamente, numerose banche europee sono di natura cooperativa o mutualistica: in tali realtà non vi è dunque diretta corrispondenza fra quota proprietaria e quota di controllo. I meccanismi che guidano le scelte aziendali sono dunque meno trasparenti e oggettivi di quelli che tipicamente governano i processi decisionali delle imprese private. La presenza di questo insieme eterogeneo di assetti proprietari rappresenta un potenziale ostacolo rilevante allo sviluppo di un mercato bancario unico europeo.

Per comprendere meglio la natura di questo ostacolo, si consideri il caso del nostro paese. In Italia una quota rilevante delle banche si è gradualmente evoluta, specie dopo l’approvazione del Testo Unico del 1993, verso un modello di impresa privata. Esse devono dunque rispondere a un obiettivo analogo a quello di ogni altra impresa privata: creare valore per i propri azionisti nel rispetto degli interessi dei diversi stakeholder dell’impresa e delle regole dettate dall’organo di vigilanza e dalle altre autorità del sistema. Questa evoluzione, coerente con il quadro regolamentare europeo, ha fatto sì che non vi sia più una prevalente funzione sociale delle banche quale quella che una volta caratterizzava le banche di interesse nazionale, gli istituti di credito speciale, le casse di risparmio e altri modelli istituzionali. Il loro operato non va dunque valutato sulla base di quanto credito concedono alle fasce deboli dell’economia o di quali tassi praticano alle imprese delle aree depresse del paese, quanto piuttosto sulla base di quanto valore hanno creato per i propri azionisti.

Questa evoluzione non sembra tuttavia ancora pienamente recepita nei modelli di governance delle banche di numerosi paesi dell’Europa continentale, dove ancora persistono due principali problemi. Il primo riguarda la sopravvivenza di banche controllate da enti pubblici o da fondazioni le quali si dimostrano maggiormente interessate a esercitare un potere di controllo sulle attività della banca che non al rendimento del proprio investimento. Questo fa sì che anche il management della banca sia poco interessato alla creazione di valore per l’azionista, consapevole che la propria conferma o la propria remunerazione dipenderanno maggiormente da altri aspetti quali la crescita dimensionale e il grado di influenza acquisiti.

Un secondo problema riguarda la sopravvivenza di assetti proprietari di natura cooperativa, nei quali convivono, da un lato, agevolazioni fiscali ormai poco giustificate, dall’altro la concreta impossibilità, grazie alla logica “una testa un voto”, di essere oggetto di acquisizioni ostili da parte di banche più efficienti. Si pone peraltro un problema di contendibilità a senso unico, in quanto le società cooperative e le banche popolari, anche se quotate, non sono scalabili,[2] ma possono andare alla conquista e scalare società che sono invece aperte al mercato.

I problemi appena accennati sono particolarmente evidenti in alcuni paesi europei, quali la Germania, la Francia e la Spagna, dove una quota rilevante del sistema bancario è rappresentata da banche pubbliche e cooperative. Come osservato recentemente da Roberto Nicastro, amministratore delegato di Unicredit Banca, l’immagine dell’Italia come paese chiuso dal punto di vista del mercato bancario, risultato di anni di una politica di vigilanza protezionistica, non corrisponde ormai più alla realtà. In paesi come Germania, Francia, e Spagna oltre il 50% degli assetti proprietari è in mano a banche cooperative o a banche statali le quali non possono essere oggetto di acquisizione. Da questo punto di vista l’Italia ha dunque molte più banche potenziali target di operazioni di acquisizione.

Non stupisce, dunque, alla luce di questa evidenza empirica, che la positiva avventura del principale gruppo bancario italiano, Unicredito, il quale è stato capace di concludere un’importante acquisizione nel mercato tedesco creando in questo modo uno dei principali gruppi bancari europei che possono realmente definirsi tali, non sia stata emulata dagli altri grandi gruppi bancari italiani. L’aggregazione Intesa-SanPaolo IMI, per quanto lodata dalla maggioranza degli osservatori, non può certo considerarsi alla stessa stregua di un’aggregazione cross-border. Anzitutto, per quanto in termini dimensionali il gruppo costituendo si collochi fra i primi gruppi europei, risulta difficile considerarlo davvero tale, data la fortissima concentrazione delle proprie attività in un singolo paese. Si pensi, a titolo di puro confronto, che il gruppo Unicredit-HVB ha in Italia solo un terzo del proprio business, nel senso che in Italia risiede circa un terzo dei dipendenti, meno di un terzo dei clienti e più o meno un terzo del fatturato complessivo, con invece i restanti due terzi che si ripartiscono fra Germania, Austria e Centro-Nord Europa.

È inoltre evidente come un’aggregazione cross-border presenti meno problemi dal punto di vista dell’impatto sulla concorrenza (vi sono regioni geografiche d’Italia nelle quali il gruppo Intesa-SanPaolo detiene quote di mercato superiori al 30%) e sull’occupazione e presenta invece maggiori benefici dal punto di vista della diversificazione geografica e produttiva dei rischi e dell’integrazione di differenti culture manageriali.

La presenza di modelli di banche pubbliche e mutualistiche, ostacolando le operazioni di acquisizione cross-border, rappresenta dunque un impedimento al conseguimento dei benefici che a tali operazioni sono tipicamente associati.

La sopravvivenza di banche pubbliche pone inoltre problemi sul fronte della concorrenza e dell’efficienza del sistema bancario europeo. Così, per esempio, le Landesbank tedesche, forti del sostegno pubblico derivante dalla garanzia offerta dai rispettivi Länder, sono state capaci di raccogliere fondi a costo molto inferiore a quello che sarebbe stato coerente con il proprio merito creditizio, emettendo titoli obbligazionari caratterizzati da rating molto elevato (AAA).

Tutto ciò premesso, ci si può domandare se, pur presentando i problemi sinteticamente descritti finora, banche pubbliche e banche mutualistiche siano in grado di generare risultati, in termini di efficienza e redditività, superiori a quelli generalmente conseguiti dalle banche private.

Un recente studio realizzato da Giuliano Iannotta, Giacomo Nocera e Andrea Sironi (“Ownership Structure, Risk and Performance in the European Banking Industry”, in corso di pubblicazione in Journal of Banking and Finance), basato su un’analisi empirica di un ampio campione di banche europee, ha posto a confronto le performance reddituali, l’efficienza operativa e il grado di rischio dei tre principali modelli di banche presenti in Europa:

1. banche private, quotate o meno nel mercato dei capitali, il cui governo è fondato sulla semplice regola “una testa un voto” e il cui obiettivo ultimo della gestione è rappresentato dalla creazione di valore per gli azionsti;

2. banche pubbliche, intese come banche il cui azionista di riferimento, con una quota del capitale pari o superiore al 25%, è rappresentato da un governo centrale o locale;

3. banche a natura mutualistica, definite come le banche per le quali non vi è corrispondenza fra diritti di voto e numero di azioni possedute. Oltre che le banche popolari italiane, quest’ultima categoria include numerose categorie di banche, quali le raiffeisenbanken e volksbanken tedesche, le building societies britanniche, e le cajas de ahorros spagnole.

L’analisi empirica non è confinata alle sole performance reddituali ma include anche la variabile rischio. Si potrebbe infatti avere una situazione nella quale una categoria di banche, per esempio le banche private, risultano, a parità di altre condizioni, più redditizie di quelle pubbliche per il semplice fatto che assumono un maggior grado di rischio, per esempio concedendo prestiti a imprese più rischiose o investendo in titoli ad alto rischio ed elevato rendimento. In questo senso, il confronto delle performance reddituali delle diverse categorie di banche deve essere effettuato “a parità di rischio”, ossia controllando per il grado di rischio assunto.

Senza entrare nei dettagli metodologici dell’analisi empirica, è possibile osservare come i principali risultati evidenzino che banche cooperative e banche pubbliche si caratterizzano, a parità di rischio, per un minore livello di redditività rispetto alle banche private. A fronte di tale minore redditività, le banche pubbliche presentano inoltre una peggiore qualità media degli attivi, un minor grado di capitalizzazione e un maggiore rischio di insolvenza.

In conclusione, la presenza – nel sistema bancario europeo – di assetti proprietari diversi da quello della normale impresa privata, il cui management può facilmente essere rimosso se incapace di sfruttare al meglio le opportunità offerte dal mercato di creare valore per i propri azionisti, rappresenta, nell’opinione di chi scrive, un ostacolo allo sviluppo di un efficiente mercato unico europeo.

Modelli quali quelli impliciti nelle banche pubbliche e in quelle mutualistiche rappresentano ormai, in un sistema economico capitalistico di mercato, residui storici legati, da un lato, all’idea di uno Stato che interviene in modo diretto nell’economia per indirizzare e sostenere gli investimenti, dall’altro a modelli di imprese cooperative che ormai poco hanno a che fare con la gamma e la natura delle attività condotte da queste stesse banche. Bene farebbero dunque i governi nazionali e le autorità europee a favorire il progressivo abbandono di questi modelli di impresa.

1

Alternativamente, si registrano importanti acquisizioni di banche italiane da parte di gruppi europei, come nel caso dell’acquisizione di Friuladria-Cariparma da parte di Crédit Agricole, il quale darà luogo a una rete estera multiregionale.

2

Si potrebbe in realtà argomentare che l’OPA subordinata alla trasformazione in SpA è ammessa dal nostro ordinamento ed è stata utilizzata in passato. Tale possibilità è tuttavia condizionata al consenso dei proprietari delle banche popolari.