E&M

2007/1

A Carnevale si indossano maschere. In molte delle nostre aziende ci sono persone che una maschera non se la tolgono mai. Da qualche incontro con qualcuna di loro è nata l’idea di questa galleria paradossale e inoffensiva come uno sberleffo carnascialesco. Vuole essere solo l’occasione per riflettere a inizio anno sull’importanza di mantenere la propria sfaccettata umanità anche quando sembrerebbe più conveniente cedere e finire con l’interpretare solo un ruolo, che il più delle volte non abbiamo nemmeno scelto. E poi vogliamo sorridere un po’: fa bene alla salute e noi vogliamo il bene dei nostri lettori. Per questo li invitiamo anche a partecipare al gioco. Sicuramente avete in mente maschere più divertenti e suggestive di quelle che leggete qui. Aiutateci ad arricchire la nostra collezione inviandoci (fabiola.mantegna@ sdabocconi.it) i ritratti che avete elaborato.

Con quelli che, a nostro arbitrario e insindacabile giudizio, saranno i più divertenti e istruttivi, magari potremo sorridere e pensare di nuovo insieme l’anno venturo. Un’ultima cosa. Trattandosi di opera di poca ma sicura fantasia vale l’ammonimento consueto: ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente casuale.

La Fatina Indaffarata

Non fatevi ingannare. È quasi sempre un uomo. Instancabile, non sta fermo mai e nessuno lo ricorda alle prese con meno di tre attività diverse nello stesso momento. Mentre parla con voi, ascolta da una coppia di auricolari nascosti musica tribale compilata apposta per lui da un amico pakistano. Nello stesso tempo risponde a una mail digitando alla velocità di un giovane nerd giapponese sul suo blackberry usurato e ripassa mentalmente le posizioni del kamasutra perché il surmenage non riguarda solo il lavoro. Quando lo accusano di esagerare con il micromanagement, quando nei corridoi aziendali gli affibbiano il nomignolo di “duracell”, prova un sottile e profondo brivido di piacere. Se suona un telefono in qualsiasi ufficio nell’azienda della quale è al vertice risponde prima di tutti, centralinisti compresi, lanciandosi con lo scatto fulmineo del centometrista nero. Così, giusto per dare il buon esempio. Raccoglie cartacce da terra, mette in ordine rigoroso le sedie della sala riunioni, raddrizza soddisfatto il calendario di Max che la squadra di operai aspetta di scoprire ogni mese sul muro del reparto tintura. Ha scelto personalmente il colore delle tende con la stessa cura con la quale ha selezionato il nuovo direttore finanziario. Dell’esperienza scolastica ha ritenuto l’uso fondamentale della matita rosso-blu con la quale martirizza presentazioni e report che gli vengono depositati sulla scrivania. È implacabile: si vanta di avere una memoria prodigiosa e di prendere in pochi secondi decisioni che hanno conseguenze pari a quelle di uno tsunami. Ama gli sport di fatica come la maratona o il ciclismo: si allena nelle pause pranzo. È affascinato dalla velocità: una sua domenica tipo prevede al mattino quattrocento chilometri per andare ad acquistare un chilo di borlotti biologici in una fattoria di ex figli dei fiori; pranzo duecento chilometri indietro presso il ristorante appena recensito dove uno chef irpino “allievo del grande Adrià” produce schiume alimentari. Corsa digestiva in direzione dell’abbazia nascosta trasformata in museo di arte precolombiana. Gran finale con, in sequenza: cinemino, pizza, quattro chiacchiere, otto digestivi e stop all’edicola dove è già in vendita il quotidiano del mattino. Se incappa in un blocco totale della circolazione per inquinamento che lo inchioda in casa, si ammala.

Ercolino-sempre-in-piedi

Non cade mai. Nelle tante sere con gli amici potenti di sempre si diverte a riformulare cinicamente la legge di Archimede: un corpo immerso nel liquido (spesso melmoso) di una grande azienda para-pubblica riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso specifico del gruppo politico di appartenenza o riferimento. Fosse vivo ancora il povero Gramsci dovrebbe dedicare un capitolo ad hoc a quelli come lui: i manager organici. Tanto più efficaci quanto più ammantati da un’aura di reale professionalità. Sono anzi forse proprio loro ad avere inventato questa orrenda parola che si allarga come una protettiva foglia di fico sulle carriere più incredibili e vergognose. Il nostro Ercolino invece è onesto: almeno con sé stesso. Sa da dove viene il suo successo e mantiene una granitica riconoscenza per chi lo fa passare indenne come un bruco nella sua mela da un buco di bilancio all’altro. Meno granitica pare essere la sua vocazione politica: approfittando del fatto che al centro degli schieramenti tutte le vacche finiscono per essere grigie, con spostamenti minimi e grazie alla sopra richiamata professionalità è riuscito a passare pressoché indenne attraverso l’alternarsi recente di maggioranze diverse.

Ancora più eclettica appare la sua specializzazione tecnica. Nel giro di pochi anni è infatti sembrato la persona giusta per risolvere problemi di business semplici come una equazione di Feynman, alternativamente in settori affini come: la telefonia, l’editoria, il trasporto aereo e quello su rotaia, la chimica più o meno fine e le fiere agricole. Dato per spacciato come direttore centrale del personale risorge come responsabile della programmazione (tanta) e del controllo (poco). Divenuto in seguito propugnatore del marketing strategico riesce alla fine ad accomodarsi sulla sedia più alta dell’ente più inutile e disastrato. Sempre presente ai convegni giusti, ai laboratori programmatici, alle presentazioni dei libri scritti dai suoi amici politici o da quei giornalisti più politici di loro, ai seminari e alle cene ristrette. Rispetto ai veri “boiardi” di Stato del passato ha in meno l’efficacia, pur mantenendo lo stesso sovrano disprezzo per l’efficienza. A fine corsa scoprirà di non avere mai posseduto un’auto propria e nemmeno qualche amico vero su cui contare. Tranne forse l’Uomo Ragno. Il quale però è amico di tutti.

L’Uomo Ragno

È il campione mondiale dell’economia di relazione. Conosce tutte le persone giuste in tutti i posti giusti. E, fin dall’inizio della sua brillante e veloce carriera, si serve di questa rete per progredire scalando, un piano dopo l’altro, i palazzi sempre più alti delle direzioni aziendali. Di lui si potrebbe dire quello che Philip Roth dice di Seymour Levov, noto come “lo Svedese”: ha l’affabilità al posto dell’anima. È così convinto che l’essenza stia in superficie da risultare sincero, anche a sé stesso. Per questo è capace di farsi amare: sempre sorridente, affettuoso, con la parola giusta e pronta per chiunque. Senza esagerare, però: piace perché ha un’intelligenza non competitiva ma garbata, innocua. Non rappresenta mai una minaccia per alcuno ed è sempre invece un’opportunità per molti. È infatti estremamente generoso: avendo realizzato intuitivamente il potere della norma di reciprocità, gli piace essere in credito con tutti. E ogni nome che si aggiunge alla sua rubrica, infinita e già opzionata per milioni dalle Pagine Gialle, è un piolo in più piantato nella scala per il successo. La sua casa è sempre aperta, sia quella comprata nella zona più “giusta” della città sia quella che guarda inutilmente la mondana bellezza delle montagne di “Curma” o del mare di “Santa”. Ora sta lavorando alacremente all’acquisto di una enorme barca per la pesca delle aragoste che intende trasformare in corte estiva viaggiante con la quale stupire amici e sodali. Del resto sono proprio le capacità di comunicare, di convincere e di vendere quelle che gli hanno assicurato la giustificazione formale di una professionalità per la posizione che occupa in azienda. Ha sposato una donna che è un concentrato di perfezione, dati gli obiettivi. Bella ma non abbastanza da ingelosire le altre, cuoca capace e soprattutto veloce: inventa pranzi e cene per venti persone con preavviso di meno di un’ora. Informata e grande programmatrice: nessun impegno mondano, prima importante, vernissage o galà benefico sfuggono al suo occhio vigile e allenato. A volte si ha l’impressione che sia lei la vera burattinaia. Impressione che diventa certezza il giorno in cui l’Uomo Ragno finisce spiaccicato sull’asfalto proprio a causa dall’unica relazione che si è preso lo stupido lusso di trascurare: irretito, proprio lui e, per una volta fatale, senza tornaconto, dalla maliziosa bellezza di due occhi troppo giovani.

L’Orco

Il suo ritratto vi aspettereste giustamente di trovarlo non qui ma nel bel libro Perché alle zebre non viene l’ulcera? che un simpatico neurobiologo di Stanford, Robert Sapolsky ha scritto sullo stress. Il nostro Orco è infatti il concentrato vivente di tutti i fattori di rischio che predispongono a una fine certa quanto in genere improvvisa. Il fisico è imponente: un Falstaff in direzione generale. Massiccio e sovrappeso, parla con un filo di affanno, che è la prima cosa che, in un incontro ravvicinato, comincerà a mettervi in ansia. È vorace di tutto: cibo, alcol, lavoro e persone in primo luogo. Ha smesso da poco di fumare, spinto da qualche divieto medico e dalle suppliche dei parenti più prossimi. Ma non è detto che non ci ricaschi a breve: siccome poi se ne frega dei divieti, in azienda un’eventuale ricaduta segnerà un pericoloso picco di fumo passivo per tutti quelli che gli lavorano vicino. Il suo profilo psicologico è noto in letteratura come Tipo A. Divorato dall’ambizione e dal desiderio di emergere (fosse anche solo per la stazza). Aggressivo e competitivo in tutto. Nelle relazioni interpersonali è temuto come Rasputin: le sue sfuriate sono leggendarie e si favoleggia della demolizione a colpi di mazza da baseball del cruscotto dell’auto di un neodirigente reo di avere occupato il posto macchina del DG. I familiari tirano un sospiro di sollievo tutte le mattine che lo vedono uscire di casa di buonora, già pronto a mettere sotto pressione il sistema simpatico e le coronarie nel caos del traffico. Sempre impaziente, in lotta contro il tempo e contro quelli che a suo avviso glielo fanno perdere inutilmente. Se i glicocorticoidi avranno pietà di lui riuscirà a placarsi solo alla fine: tornato sulle sponde di quel lago odiato con tutte le forze da bambino appenderà alla canna da pesca un filo sottile e lucente di rimpianto.

L’Arcivescovo

Quello che sa di management lo ha imparato all’oratorio. Organizzando ogni anno la pesca di beneficenza e provvedendo ogni domenica, dall’età di sette anni e con un’aria seria e compunta che non l’avrebbe più abbandonato per tutta la vita, alla raccolta delle elemosine. Qualche corso Master successivo è solo servito ad affinare la tecnica. È stato quasi naturale per lui continuare a occuparsi di raccogliere e impiegare danaro: la finanza gli è apparsa subito come lo strumento mondano attraverso il quale esprimere la propria vocazione e farsi rispettare in società. Non appartiene all’Opus Dei. Non ne ha bisogno. Il sentirsi in missione per conto di Qualcuno molto importante lo rende sicuro al limite dell’impudenza. Si è sposato presto e ha una prole numerosa. Ha occhio ceruleo e liquido come un’acquasantiera. La fatica gli ha regalato qualche ruga di troppo ma non ha scalfito l’angelico e un po’ mesto sorriso che lo contraddistingue in qualunque circostanza. Anche quando affonda la lama là dove ha deciso di colpire. Non dice mai parolacce. Ma ne pensa di terribili, contando su uno sconto in confessionale. Qualunque onore, qualunque incarico o prebenda è accolto solo per “spirito di servizio”. Ma a memoria d’uomo non si ricorda che abbia mai mollato uno strapuntino in vita sua. Potete presentarvi a lui con un tumore inguaribile, con la lettera con la quale siete stati appena licenziati o quella che vi ha lasciato la vostra unica figlia prima di sparire inghiottita dall’industria del porno di Los Angeles, e da lui riceverete sempre e solo un caldo e commosso invito a rimanere sereni. Del resto anche lui è sereno quando, un giorno, proprio nell’ora antelucana delle Lodi mattutine (che del resto salta ogni giorno dormendo, appunto, sereno come un bambino), quattro uomini gentili e vestiti di blu lo invitano con una certa fermezza a un incontro con l’imperfezione della giustizia terrena che giunge con largo anticipo rispetto a quello con Altro e ben più temibile Giudice. Ed è proprio allora che, per la prima e unica volta, il ricco Arcivescovo aziendale ispira al mondo curioso un breve moto di cristianissima compassione.

Il Professore

La prima volta che si è seduto sulla poltrona di Presidente ha provato la stessa emozione che deve avere provato Pinocchio all’arrivo nel Paese dei Balocchi. Finalmente: dopo anni di oscuro lavoro, di tomi su tomi di tecnica aziendale, di centinaia di studenti laureati e sparsi come gramigna sull’intero sistema economico nazionale qualcuno si è accorto del suo vero valore. Hanno sicuramente giovato gli editoriali sul quotidiano nazionale e l’incontro fortunato con Ercolino-sempre-in-piedi. Ma questi, a suo avviso, sono solo piccoli espedienti dei quali la Fama si è servita per riconoscergli il dovuto. Altri al suo posto, persino qualche collega, invidioso, di università, sarebbero leggermente intimiditi ora che si tratta di passare dalla teoria alla pratica, ora che il danno potenziale non si limita più a un eventuale aumento del tasso di disoccupazione intellettuale, ma riguarda posti di lavoro, persone e prodotti veri, fatturati imponenti. Lui no: viziato dal fatto che i professori e gli insegnanti in genere sono l’unica categoria professionale che si ritiene più meritevole quanto più frequentemente boccia come inadeguato il frutto del proprio lavoro, pensa di essere pronto per qualsiasi sfida. E le sfide non mancano: i conti non sono in ordine, le quote di mercato si stanno restringendo come golfini infeltriti e le persone migliori stanno abbandonando precipitosamente la nave. Ma sul ponte di comando il nostro Professore è saldo come un’ancora: la durata dei consigli di amministrazione è triplicata da quando c’è lui a pontificare su qualsiasi argomento, a interessarsi di qualsiasi dettaglio, incurante delle facce attonite dell’AD e degli altri consiglieri. Il meglio di sé lo dà nei rapporti con la stampa, che adora, soprattutto quando a intervistarlo è la televisione. Un suo amico del dipartimento di Sociologia gli ha spiegato che il medium televisivo (ha detto proprio così) richiede naturalezza e confidenza e che per questo conviene parlare direttamente in camera, guardando fisso negli occhi virtuali degli spettatori. Il nostro ha adottato entusiasta questa tecnica con risultati che farebbero invidia agli epigoni più estremi dell’espressionismo russo o tedesco. Quanto al parlato l’effetto è rimasto lo stesso che produceva in aula: basta un minuto della sua voce monocorde per consegnare a Morfeo anche il più attento degli ascoltatori. In tv lo tagliano per questo dopo pochi secondi e lui rimane a chiedersi che ne è stato del registrato di decine di minuti. Proprio quando sta cominciando a prenderci gusto, a imparare il nome di battesimo di segretaria personale e autista, a mettere da parte i soldi per la casetta al mare, il vento cambia, il consiglio di amministrazione si scioglie a seguito di un’acquisizione, l’aspettativa finisce e si torna in Facoltà. Il Professore è passato veloce come una cometa. Ma una cometa con una lunga scia di carta: il libro che sta scrivendo sulla sua esperienza di amministratore di successo. Cercasi editore interessato (offresi adozione sicura in corso obbligatorio).