E&M

2006/5

Vincenzo Perrone

Vincere i mondiali: capitale simbolico e capacità competitiva

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È arrivata sui giornali la notizia che alcuni economisti avrebbero provato a stimare l’impatto positivo che la vittoria della nazionale italiana agli ultimi Campionati Mondiali di calcio di Germania 2006 potrebbe avere sul nostro prodotto interno lordo ovvero sulla nostra produttività. Vincere non ci avrebbe solo resi infinitamente contenti, come hanno testimoniato i soliti caroselli di auto che hanno riempito rumorosamente la notte della vittoria in quasi tutte le nostre città, ma ci avrebbe anche fatto diventare un po’ più ricchi. Perché?

In primo luogo perché i mercati vivono di fiducia e la vittoria ai Mondiali, tanto più quanto meno era attesa, rappresenta un’iniezione di ottimismo capace di aggiungere uno stimolo in più alla voglia di investire, di lavorare e di produrre. L’ottimismo sarà anche il sale della vita ma è sicuramente uno dei motori chiave della crescita economica.

Come è noto, aspettative positive circa il futuro possono spingere a prendere qualche rischio in più e a mettere in circolazione più risorse. Di qui l’impatto positivo di cui stiamo discutendo (e che speriamo ci sia stato davvero) sulla produttività nazionale. Ci può essere, però, almeno un altro meccanismo importante all’opera capace di causare lo stesso effetto, sul quale vorremmo richiamare l’attenzione dei nostri lettori. In prima approssimazione, si tratta dell’effetto “immagine” che una vittoria come quella dei Mondiali, immediatamente visibile su scala planetaria grazie alla televisione e a Internet, realizza a beneficio della nazione che arriva al gradino più alto del podio. Improvvisamente l’Italia acquisisce una credibilità e un’autorevolezza nuove che, per quanto ispirate da fatti contingenti come il comportamento in campo dei nostri giocatori e i risultati che li hanno premiati, riverberano positivamente anche sulle nostre aziende e sui nostri prodotti. In scala ridotta, un esempio di questo effetto è l’esperienza piacevole e comune del turista italiano che viene accolto, in angoli sperduti del mondo, da un sorriso immediatamente disponibile e aperto sul volto di gente di ogni razza e colore che, appena scoperto il luogo di origine, pronuncia benissimo e con ammirazione il nome di Cannavaro o di Gattuso (mentre quelli che non hanno mai smesso di amarci ricordano ancora Paolo Rossi o Totò Schillaci…). Le onde che si propagano dal fatto positivo iniziale creano una sensibilità diversa verso ciò che è italiano anche nei mercati e nelle imprese, spingono un po’ di domanda aggiuntiva, modificano l’immaginario collettivo a favore di ciò che siamo e di quello che abbiamo da proporre agli altri.

La vittoria diventa il simbolo di una capacità, e questa capacità attribuita al paese ci fa guadagnare posizioni nell’invisibile asse gerarchico lungo il quale si distingue chi è leader e chi è costretto a inseguire, chi innova e chi si limita a copiare, chi detta le mode e chi le subisce, chi merita di essere ascoltato e chi può essere trascurato, i migliori e i peggiori e, appunto, chi è vincente e chi non lo è. La gloria e il posizionamento conquistati grazie a una vittoria calcistica hanno una durata breve, se non vengono sostenuti e amplificati da altri fattori. Ma questa arena nella quale ci si confronta non solo in base al prezzo e alla qualità di quello che si offre ma anche in base al potere di influenza che deriva dalla propria credibilità, dalla propria reputazione (ovvero da ciò per cui siamo conosciuti e riconosciuti) e dalla propria immagine merita di essere meglio analizzata e compresa per l’importanza che riveste nell’orientare anche le transazioni economiche.

Il primo a parlare del potere simbolico e del capitale simbolico che ne sta alla base è stato il grande sociologo francese, purtroppo scomparso non molto tempo fa, Pierre Bourdieu (per esempio in un suo contributo del 1979: “Symbolic Power”, Critique of Anthropology, 4, 13-14, Summer, pp. 77-85 e in un altro di dieci anni dopo: “Social Space and Symbolic Power”, Sociological Theory, 7, 1, Spring 1989, pp. 14-25). Lo scopo di Bourdieu non era direttamente quello di spiegare i fenomeni economici e il funzionamento dei mercati in questa nostra epoca di globalizzazione e postmodernità. Ma le sue intuizioni possono esserci comunque utili anche a questo proposito. Per lui, interessato a svelare i meccanismi di stratificazione e i rapporti di forza tra ceti e classi caratteristici delle società capitalistiche avanzate, il concetto di capitale simbolico è servito per dare tratti precisi alla forma più sottile di dominazione: quella che arriva a condizionare i meccanismi cognitivi, di percezione, di generazione di senso e di giudizio sul reale di ciascuno di noi. Quello simbolico è il potere di dire in modo convincente e credibile qual è il giusto ordine delle cose e quale posizione ciascuno può occupare nella scala sociale. È il potere di distinguere, di separare e di raggruppare gli attori presenti in un certo contesto sociale secondo dimensioni scelte da chi è dominante. È il potere di rendere legittima e accettata dai più quella che è la propria visione del mondo, e come tale non dotata di verità oggettiva ma condizionata dagli interessi su questo mondo e in questo mondo di chi ha la forza e la credibilità necessarie per imporla. È la capacità di trasformare in accettabile ordine naturale ciò che è invece il prodotto di conflitti di interessi e di dinamiche sociali. Chi gode di questa forza, che maschera e legittima quella del danaro, ha un potere quasi magico, afferma Bourdieu: quello di creare la realtà attraverso le parole, di nasconderne le tensioni, e di essere capace di mobilitare energie e consenso nella direzione voluta, stimolando ammirazione, emulazione e processi di identificazione. Non dovrebbe essere difficile per noi apprezzare la portata delle intuizioni del sociologo francese se guardiamo all’importanza di questi elementi simbolici, o che un marxista definirebbe forse sovrastrutturali, nei conflitti che affliggono oggi il nostro pianeta. Lo testimoniano il fatto che si arrivi a parlare di scontro di civiltà, che è anche scontro tra opposte visioni del mondo, e la crescita di conflitto in conflitto dell’importanza attribuita alla cosiddetta guerra mediatica, che si compie appunto attraverso la manipolazione interessata di simboli e ha come obiettivo primario la conquista o il turbamento delle coscienze piuttosto che l’annientamento fisico del nemico. Scendendo di livello e avvicinandoci alle cronache di casa nostra, possiamo anche comprendere meglio, con questa chiave di lettura teorica, l’attenzione che i cosiddetti “poteri forti” (una locuzione che, nel momento in cui diventa luogo comune, è di per sé un prodotto dell’esercizio di potere simbolico) riservano al controllo della comunicazione in generale e dei giornali in particolare. E anche il contraddittorio rapporto tra questi stessi poteri e gli intellettuali, che possono essere sia funzionali alla “messa in scena” sia di ostacolo, per la capacità che qualche volta hanno avuto di svelare questa forma simbolica di dominazione.

Un vincente racconta sempre la storia che gli è conveniente al mondo e sul mondo. E quanto più numerosi sono quelli che subiscono la fascinazione di questa storia, tanto maggiore è il potere simbolico che chi è magari già ricco e ben dotato di capitale sociale (come abbiamo visto nell’editoriale precedente) può esercitare a ulteriore ed essenziale difesa della propria posizione. Crediamo che processi simili siano rilevanti anche per le imprese nella loro lotta per il dominio nell’arena competitiva delle economie globali. In questo contesto il capitale simbolico è il valore dell’abilità di un’impresa di affermare la propria visione della realtà e della propria posizione in quella realtà come legittime e accettabili da tutti gli altri stakeholder: clienti, in primo luogo, ma anche fornitori e controparti istituzionali. Quanto più credibile è un’impresa agli occhi dei consumatori, quanto più forte è la sua capacità di imporre la propria parola sul mondo interpretandolo e descrivendolo in un modo attraente per tutti anche quando ciò è fatto a proprio uso e consumo, quanto più elevata è la sua reputazione, tanto maggiore è il livello di capitale simbolico che quella impresa possiede. Questa forma di prestigio si raggiunge anche attraverso cospicui investimenti di danaro, tanto più efficaci, però, quanto meno direttamente ed esplicitamente sono collegabili all’obiettivo di ottenerne un immediato ritorno economico positivo, ovvero quanto più assomigliano a doni gratuiti. E ancora più importanti del danaro sono gli investimenti in tempo e in energia.

Scendendo ulteriormente dalla rarefatta teoria sociologica al piano della pratica manageriale, possiamo allora intuire perché il tradizionale investimento in pubblicità sia una forma imperfetta, e peraltro sempre meno efficace, di investimento per il miglioramento della propria dotazione di capitale simbolico. Intuizione che hanno avuto forse per primi i sostenitori del cosiddetto guerrilla marketing che consigliano, soprattutto alle piccole e medie imprese dai budget limitati, di spendere più in immaginazione che in danaro trovando modi di parlare al proprio mercato originali e imprevedibili. Questo è particolarmente rilevante quando, come ora, il “rumore di fondo” dal quale bisogna uscire per farsi sentire, da chi peraltro ha oggi molte più possibilità di scegliere di non ascoltare, ha un’intensità sempre più alta: solo per fare un esempio, fino a venticinque anni fa bastavano cinque passaggi televisivi con uno spot pubblicitario tradizionale per riuscire a colpire l’80% degli americani. Oggi, nell’era del telecomando, del satellite e dei canali tematici, per raggiungere un risultato simile ne occorrono almeno trecento. E probabilmente non bastano. Per conquistare il potere di farsi ascoltare e di distinguersi occorre allora investire in segnali diversi, più sottili e con una forza simbolica più elevata. Gli eventi di grande impatto sul pubblico di riferimento e sui media, per quanto solo tenuemente collegati a una marca o ad un prodotto, le forme evolute di sponsorizzazione, il mecenatismo delle arti e della cultura, il fare leva sugli effetti di rete sociale e sul passaparola, gli interventi sul paesaggio e sull’arredo urbano, l’uso innovativo di Internet e dei blog, il placement dissimulato dei propri prodotti in un film, in una trasmissione televisiva o in rapporto a un artista o a una canzone di successo, la stessa beneficenza ostentata bene al di là di quanto tollerabile secondo l’imperativo evangelico della discrezione in questo campo importante e delicato: sono tutte anche armi che le aziende utilizzano nella lotta per il potere simbolico. In sempre più settori oggi non si vendono prodotti ma stili di vita e visioni del mondo. Questo è pressoché ovvio nella moda e più in generale nell’industria dei beni di lusso. Ma ha un’importanza notevole anche, per esempio, nella ristorazione di livello internazionale, dove cosa si deve mangiare e come costituisce l’oggetto di competizione simbolica rispetto alla quale oggi si affermano gli chef italiani e domani vincono quelli catalani, ognuno smontando i presupposti dell’affermazione del gruppo precedente. Il tutto con la benedizione dei critici specializzati, veri cogeneratori di reputazione, un tempo circoscritti all’analisi e categorizzazione dei fenomeni artistici e culturali, e oggi invece attivi e influenti in sempre più campi rilevanti di azione economica e sociale. E delle élite che per prime si fanno influenzare nei loro comportamenti di consumo da spostamenti appena percettibili nella dotazione di capitale simbolico di chi sta sul mercato. Le masse tendono poi a seguire questi pesci pilota amplificando su larga scala la variazione iniziale nelle gerarchie di potere simbolico.

Il consumo è diventato per molti, e per i giovani in particolare, una delle basi per la definizione della propria identità. Un motivo di orgoglio. Le aziende che riescono a entrare in questo dialogo profondo con il proprio mercato arrivano a distinguersi e possono costruire un vantaggio competitivo sostenibile. Perché questo accada occorre che l’impresa abbia il potere di farsi ascoltare, sia considerata legittima e abbia la capacità di influenzare l’interpretazione della realtà da parte dei propri interlocutori. E soprattutto è necessario che l’impresa abbia in primo luogo una propria visione del mondo e della propria posizione in quel mondo per poterla comunicare e imporre al mercato. Arrivare a questo livello di consapevolezza è ciò che può far fare un salto, aprire opportunità di crescita e schiudere orizzonti competitivi nuovi. Imprese come Apple, Diesel o Google e tante altre come loro hanno capito che per competere oggi non bastano i buoni prodotti e un’ottima dotazione di capitale economico, e che sono invece le interazioni tra questa forma di capitale e tutte le altre a fare la differenza. Sarebbe importante chiedersi quante delle nostre imprese sanno definire la propria strategia competitiva anche secondo questa prospettiva. La competizione, infatti, si gioca in modo complesso su più piani: quello economico, quello delle conoscenze, quello delle relazioni e quello simbolico. Ogni piano interagisce con gli altri e mosse vincenti o errori possono essere compiuti in ciascuno di essi con effetti su tutti gli altri. Tenerne conto complica probabilmente la vita ma aiuta a rimanere vincenti.

Ricordiamocene quando, sperabilmente di nuovo tra quattro anni, ci ritroveremo a urlare con tutta la forza dei nostri polmoni: “Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo!”.