E&M

2006/3

Gianni Canova Severino Salvemini

Il tesoro e il segreto

Ci sono merci che valgono più del denaro depositato nel caveau di una banca. Sono le informazioni. Ma per impossessarsene non basta una rapina. Servono una tattica e una strategia. O una tattica che sappia dissimulare il vero obiettivo strategico dell’azione. Questo, almeno, ci dice Inside Man, l’ultimo film del regista afro-americano Spike Lee.

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Inside Man

Regia: Spike Lee

Interpreti: Clive Owen, Denzel Washington, Jodie Foster

Usa, 2006

In apparenza, il nuovo film di Spike Lee – il primo realizzato su commissione – sembra la versione aggiornata di Quel pomeriggio di un giorno da cani. In realtà, dietro l’apparenza di un classico “film di rapina”, Inside Man nasconde un intreccio molto raffinato e ricco di intuizioni di portata più generale. Il punto di vista a partire dal quale è raccontata la storia è quello del leader di un piccolo gruppo di rapinatori: chiuso in una “cella” (che non è necessariamente quella di una prigione, anche se lo scopriremo solo alla fine), guarda in macchina, si presenta con nome e cognome, invita lo spettatore a stare molto attento (“Scelgo le mie parole con cura e non mi ripeto mai”), e racconta la grande rapina a una banca di Wall Street che lui stesso ha organizzato, spiegando con sobria e sintetica chiarezza il “chi”, il “dove”, il “quando” e il “perché” (“…perché lo so fare!”, sussurra ghignando). Poi si congeda con una frase sibillina: “Ci resta solo il ‘come’ da spiegare. Ed è qui che il Grande Bardo direbbe che c’è un intoppo”. Il come – insomma – presenta un problema. O un trucco. Un depistaggio. Per buona parte del film crediamo di assistere alla fenomenologia di una rapina, ma poi – a poco a poco – cominciamo a sospettare che l’obiettivo dei rapinatori sia un altro. Non i dollari contenuti nelle cassette di sicurezza di una delle più ricche banche di Wall Street, ma informazioni. Ossia documenti, prove. Cioè le vere merci che oggi contano, e valgono. Ma stiamo ai fatti: Inside Man racconta di quattro personaggi mascherati che entrano in banca, sequestrano clienti e impiegati, li fanno spogliare, obbligano tutti a indossare una tuta e un cappuccio identici a quelli che indossano loro, poi negoziano con la polizia – come in ogni rapina che si rispetti – le condizioni per il rilascio degli ostaggi (un pullman che li porti all’aeroporto e quindi un aereo per espatriare). Nella prima parte del film tanto la polizia – incarnata nella figura del detective negoziatore, interpretato da uno strepitoso Denzel Washington – quanto gli spettatori cadono nella trappola e seguono lo sviluppo della vicenda nella convinzione che i rapinatori vogliano davvero svuotare il caveau della banca. Ma poi alcuni indizi cominciano a suggerire altre ipotesi e a disseminare sospetti: il presidente della banca incarica una cinica e glaciale avvocatessa (Jodie Foster) di trattare con i rapinatori per recuperare alcuni documenti segreti; gli stessi rapinatori non toccano il denaro e si limitano a impadronirsi di una busta contenuta in una cassetta di sicurezza “fantasma”. Cos’è in gioco, dunque, in Inside Man? Non tanto un tesoro, quanto un segreto. Scopriremo, infatti, che la ricchezza del magnate proprietario della banca risale ad affari sporchi combinati con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale, e che le fortune conservate tra le mura di pietra e di acciaio del prestigioso istituto di credito risalgono a speculazioni effettuate sulle vittime dell’Olocausto nazista. Ma non è tanto la riflessione sull’etica degli affari – peraltro abbastanza prevedibile e scontata – che colpisce nel film, quanto la messinscena di una strategia capace di vincere spiazzando l’avversario. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Mi sembra che il film di Spike Lee contenga prima di tutto una riflessione stimolante sul tema della strategia. Mi spiego: qui siamo di fronte ad alcuni individui – i rapinatori – che assumono determinati atteggiamenti (entrano in banca mascherati, sequestrano dipendenti e clienti, minacciano di uccidere gli ostaggi qualora le loro richieste non vengano esaudite) nella convinzione che i loro interlocutori (le forze dell’ordine, ma anche i proprietari della banca in cui sono asserragliati) ne ricavino la certezza che quei comportamenti non possono che essere legati a determinati obiettivi. In realtà, i rapinatori hanno in mente un obiettivo di altra natura, ma lo dissimulano. Lasciano che siano gli altri a dover presumere o congetturare il loro obiettivo. E lo fanno sapendo che gli altri quasi certamente sbaglieranno, e cadranno nella trappola. Non so se in ambito aziendale si diano casi analoghi; certo è che siamo di fronte a un caso molto interessante di dissimulazione tattica della strategia, o di strategia dissimulata.

S.S. In generale, non mi sembra che le aziende oggi possano permettersi strategie così raffinate e rischiose. Forse accadeva anni fa, quando la gestione aziendale era più razionale e pianificata. Allora si citavano di continuo perfino i manuali di strategia militare – a cominciare da von Clausewitz – e si costruivano veri e propri schemi d’azione che prevedevano a priori i controschemi basati sulla presunzione della possibile reazione dell’avversario o del competitor. Oggi, invece, l’azione strategica in ambito aziendale è diventata sempre meno pronosticabile e meno prevedibile. La strategia è quasi sempre strategia emergente. Non segue schemi studiati preventivamente: si muove entro determinati limiti e poi razionalizza a posteriori le scelte concretamente operate…

G.C. Appunto: e ciò rende ancora più rischioso l’eventuale ingresso sul mercato di nuovi attori capaci di dissimulare una nuova strategia dietro l’adozione di comportamenti esteriori apparentemente legati a vecchi obiettivi…

S.S. In questo caso, l’effetto immediato sarebbe quello di far cadere il concorrente in errore: si tratterebbe di un classico “vantaggio cognitivo”.

G.C. È proprio quello che accade nel film: solo i rapinatori e il loro leader sanno esattamente quello che vogliono fare. Tutti gli altri – spettatori compresi – non sanno assolutamente nulla: vedono determinati comportamenti esteriori e per inerzia, per abitudine o per pigrizia leggono quei gesti secondo gli schemi già collaudati.

S.S. Per la verità, la polizia non li vede neppure, i comportamenti dei sequestratori. Li può soltanto immaginare. Tutto avviene nella segretezza e nell’invisibilità. Manca il momento fondamentale della negoziazione, delegato soltanto al personaggio dell’avvocatessa interpretata da Jodie Foster: lei è l’unica che entra in banca, che parla con i rapinatori, che intuisce le loro reali intenzioni. In ambito aziendale – penso, per esempio, al confronto con i sindacati – è proprio nel momento della negoziazione che si può pensare di riconoscere l’obiettivo reale della controparte. Per questo si dice spesso che nella negoziazione vince chi ti spiazza.

G.C. Soprattutto se, come accade nel film, tutta la negoziazione avviene su false richieste. Lo spiazzamento sta nel fatto che la stessa negoziazione è finta, è solo simulata…

S.S. In apparenza è così. In realtà la negoziazione vera non avviene tra la polizia e il leader dei rapinatori, ma tra questi e il personaggio di Jodie Foster. Saranno loro due alla fine a spartirsi i benefici dell’azione compiuta. La prima dissimulazione tattica della strategia consiste, in fondo, nel non far capire agli altri con chi stai veramente trattando, e nel far credere a chi non conta nulla in vista del tuo obiettivo che in realtà stai dialogando proprio con lui.