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2006/2

Indice

Editoriale

I buoni propositi

Fuoricampo

Un viaggio a Madrid

Storie di straordinaria imprenditorialità

Calvi SpA contro i luoghi comuni

Archivio della rivista
Gianni Canova Severino Salvemini

Il paradosso della concorrenza

Ambientato – come dice la nota canzone – “tra il Belgio e la pioggia”, l’ultimo film di Costa-Gavras affronta in toni provocatori il tema del ricollocamento al lavoro di un manager colpito dai processi di delocalizzazione e ristrutturazione tipici dell’economia globalizzata, e costretto a risolvere a modo suo il problema della competizione con coloro che ambiscono a ricoprire il suo stesso ruolo.

Cacciatore di teste

Regia: Constantin Costa-Gavras

Interpreti: José Garcia, Karin Viard , Olivier Gourmet

Francia-Belgio, 2006

L’azione si svolge in una tipica cittadina del Nord Europa, spesso battuta dalla pioggia, in un quartiere apparentemente abitato da una borghesia abbiente, ottimista e facoltosa. Apparentemente, si diceva. L’atmosfera di sobria serenità, infatti, è del tutto fasulla: proprio nelle eleganti villette unifamiliari con prato all’inglese spesso esplodono le tragedie provocate dalle nuove regole del mercato del lavoro. Il film di Costa-Gavras ne racconta una, esemplare nella sua grottesca paradossalità: Bruno Davert – quarant’anni, due figli adolescenti, moglie elegante e premurosa – viene licenziato da un giorno all’altro dalla cartiera in cui lavorava da oltre quindici anni come manager. Ristrutturazione e delocalizzazione, gli dicono in azienda. Lui, sulle prime, non si preoccupa più di tanto: può contare su una cospicua buonuscita, sa di essere competente (è un chimico), laborioso ed efficiente, ed è convinto di poter trovare in fretta un nuovo lavoro. Invece le cose vanno in modo diverso: dopo due anni, Bruno è ancora disoccupato, i soldi della buonuscita si sono volatilizzati, il mutuo della casa è lontano dall’essere estinto e la famiglia comincia a soffrire pesanti ristrettezze economiche. I due figli sono nervosi e insofferenti, la moglie è costretta a fare ben due lavori (di giorno infermiera in ospedale, di sera cassiera in un cinema) per far entrare qualche soldo in casa. Bruno invece ammazza il tempo spedendo curricula che non ottengono risposta e sostenendo umilianti colloqui di selezione del personale che non hanno mai esito positivo. Alla fine, esasperato e furibondo, l’ex dirigente decide di applicare alla lettera quel che gli è stato insegnato nei corsi di marketing e management che ha frequentato. Gli è stato detto che la prima dote di un bravo manager consiste nel saper eliminare la concorrenza? Bene: lui applica la lezione alla lettera. Individua cinque concorrenti in cerca di lavoro come lui, ma con un curriculum migliore del suo, e li fa fuori. Uno dopo l’altro, cinicamente. Senza rimorsi né sensi di colpa. Semplicemente applicando a suo modo le leggi che regolano il mercato. Diretto dal regista Costa-Gavras (Z, l’orgia del potere, Missing), Cacciatore di teste pone interrogativi importanti, sia pure in forma provocatoria e grottesca. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Prima di tutto, colpisce nel film l’esatta riproposizione dello stereotipo del manager: il protagonista è un uomo civile, mi vien da dire che è perfino un cittadino modello. Serio, responsabile, efficiente, rigoroso. La perdita del lavoro implica la progressiva perdita di tutte queste qualità: con la depressione, gli piombano addosso la perdita di autostima, la diminuzione di status e di dignità sociale, perfino un certo declino del machismo di fondo che in precedenza ostentava se non altro nella gestione dei rapporti familiari. “Togliendomi il lavoro – dichiara a un certo punto il personaggio – mi hanno strappato la vita.” Il paradosso è che per riprendersi la vita, lui la toglie agli altri, nell’illusione che sia l’unica strada possibile per ritrovare l’identità perduta.

G.C. Io sono rimasto invece molto colpito dalla sostanziale coerenza comportamentale del personaggio. Cioè dal fatto che Bruno mantiene anche in famiglia e poi nella sua attività “criminale” lo stesso atteggiamento e lo stesso ruolo che aveva quando lavorava in azienda…

S.S. È vero. Qualunque cosa faccia, agisce con metodo, senza incertezze, senza piacere, con determinazione. Con una sistematicità davvero manageriale. È asettico quando tratta sia i problemi dei figli (paradigmatico quando affronta il problema del figlio che ruba software nel supermarket e risolve le conseguenze giudiziarie facendo sparire con metodo il corpo del reato) sia i suoi problemi sentimentali con la moglie oppure quelli della sua appetibilità nel mercato del lavoro.

G.C. Direi anche con una certa rigidità, se non addirittura con assoluta mancanza di flessibilità. I suoi rivali – i cinque detentori di curriculum ottimale – sono nella sua stessa situazione, ma si sono “adattati”: uno vende giacche in un grande magazzino, un altro fa il barista e serve vino rosso e braciole di maiale in una brasserie. Entrambi hanno nostalgia del loro passato di manager, ma si arrangiano. Bruno non è disposto a farlo, vuole assolutamente tornare a fare quel che è convinto di saper fare a livello eccelso. Per questo elimina i suoi rivali con assoluta nonchalance. Come fare zapping alla tv, come partecipare a un quiz show sull’eliminazione preventiva della concorrenza.

S.S. Ed è proprio su questo piano che il film pone gli interrogativi più urgenti alla nostra coscienza civile. Bruno è il prodotto estremo e paradossale di un sistema in cui la concorrenza è stata feticizzata in modo esasperato. Abbiamo passato anni a dire e a scrivere che la competizione economica doveva far proprie le regole della guerra, nei corsi o nei master di management si citavano a proposito e a sproposito manuali militari, si leggeva Von Clausewitz o i metodi del Kung fu, si paragonava la concorrenza economica a uno scontro bellico. Bruno, nel film di Costa-Gavras, applica questa lezione alla lettera e la porta oltre la trincea dell’azienda; non solo l’annientamento del nemico, ma il sangue e la morte. È brutale come lo sono le strategie di delocalizzazione e ristrutturazione che l’hanno colpito. In questa sua brutalità, certo, finisce per smarrire i confini del lecito. Ma quali sono i confini del lecito in una ristrutturazione? Non lo sapremo mai. Sappiamo che nel breve periodo produce risultati positivi, ma siamo sicuri che nel lungo termine non finisca per produrre catastrofi peggiori dei mali cui voleva porre rimedio?

G.C. Stai dicendo una cosa molto forte…

S.S. C’è una frase nel film che mi ha fatto molto pensare. È quella in cui Bruno dice: “I nemici sono gli azionisti. Il 16% per cento di utili per loro, la disoccupazione per noi”. Ecco: forse sono maturi i tempi per cominciare a chiederci se a volte non basti il 15% di utili invece del 16%, a patto di salvare qualche vita e qualche famiglia… Oppure perché il 16% e non il 20% oppure il 10%. Da una parte ci sono le redditività, che sono chiare, ma non abbiamo definito bene le conseguenze sociali del fenomeno sul resto della società, lavoratori e loro depressioni inclusi.

G.C. C’è questo, nel film di Costa-Gavras, ma c’è anche una stigmatizzazione abbastanza palese del protagonista. Non è un eroe, al fondo non parteggiamo mai per lui. Certo: da disoccupato capisce il valore sociale del lavoro. Ma poi continua a essere freddo e gelido con tutti, a cominciare dai suoi familiari. È un individualista patologico. Pensa che nessuno lo possa aiutare. Non si fida di nessuno. Crede di essere l’unico capace di elaborare strategie. Non dimostra nessuna adattabilità né sociale né di ruolo. Forse, la critica più radicale del film va proprio verso questo bersaglio: verso una figura di manager che – pur risultando vincente in una società che ormai sembra convivere con il “delitto senza castigo” – perde poi su tutto il fronte proprio per la rigidità pseudorazionale di cui è espressione. Forse non è un caso che uno così, alla fine, non riesca a trovare lavoro. O che incappi prima o poi in qualcuno determinato ad agire nei suoi confronti in modo analogo a quello che lui ha adottato verso i suoi competitor e i suoi rivali.