E&M

2001/6

A tempo pieno

Regia: Laurent Cantet

Interpreti: Aurélien Recoing, Karin Viard

Francia, 2001

Quarant’anni. Un lavoro da consulente aziendale, prestigioso e ben remunerato. Una moglie adorabile, una famiglia perfetta. La vita di Vincent, il manager protagonista di A tempo pieno, il nuovo film del regista francese Laurent Cantet, sembra scorrere serena e appagata, tra un viaggio di lavoro, una riunione d’affari e un weekend in famiglia. In realtà quell’esistenza è tutta una finzione, un inganno: Vincent da qualche mese ha perso il lavoro. Forse è stato licenziato, forse ha scelto lui di dare le dimissioni. Il film da questo punto di vista è volutamente ambiguo, non consente certezze. L’unica cosa certa è che Vincent non fa più il lavoro che faceva da anni. Non lo fa più ma finge di continuare a farlo. Si inventa viaggi d’affari, sta spesso fuori a dormire, prepara memo e rapporti, è sempre attaccato al telefonino. Alla moglie e ai figli dice di aver avuto un nuovo incarico all’ONU, a Ginevra, e di occuparsi di cooperazione internazionale. In realtà, quando esce di casa, Vincent perde tempo, si attarda negli autogrill, dorme nelle piazzole di sosta delle autostrade. Non fa nulla, ma simula di fare quel che ha sempre fatto. Per procurarsi il reddito necessario a garantire alla sua famiglia il tenore di vita cui è abituata chiede prestiti al padre, fingendo di voler cambiare casa, poi comincia a ingannare amici e conoscenti, convincendoli a impegnare i loro risparmi in oscuri investimenti. Mentire diventa per lui un’occupazione a tempo pieno. Costretto non soltanto a trovare ad ogni costo dei soldi, ma anche ad alimentare giorno dopo giorno questa finzione, Vincent finisce per restare vittima della sua stessa trappola e per scivolare progressivamente in un cul de sac senza apparente via d’uscita. Se nel precedente film di Cantet (Risorse umane,2000) il lavoro era visto ancora come un valore assoluto, da difendere come diritto e come forma ineliminabile di identificazione sociale, qui l’analisi critica del regista francese si spinge decisamente più in là, e si interroga sull’ambiguo rapporto che anche un manager affermato rischia di intrattenere con la propria identità professionale. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Mi sembra che il tema di fondo del film sia la necessità, per chiunque, di avere un lavoro. È un tema che in genere tendiamo ad associare soprattutto ai più poveri, agli immigrati, a quelli che svolgono mansioni poco qualificate. Il film di Cantet lo applica invece, con intelligenza, alla figura di un manager che a un certo punto sembra volersi liberare dai vincoli e dagli obblighi che la sua professione gli impone e poi si ritrova a inventarsi esattamente quei vincoli e quegli obblighi. Non riesce a esistere senza continuare a fare quello che ha sempre fatto. Non sa, o non osa, cambiare ruolo fino in fondo. E quindi riproduce nella finzione e nella menzogna gli stessi comportamenti quotidiani e gli stessi riti sociali che praticava prima nella realtà.

G.C. Certo. Vincent continua a indossare i suoi abiti borghesi, a girare con la sua ventiquattr’ore, a vivere in simbiosi con il telefonino. Recita la solita parte, non sa inventarsi un copione diverso. Come se nel lavoro e nel ruolo ci fosse tutta la sua identità. Come se l’assenza del lavoro provocasse in lui, e nella percezione che gli altri hanno di lui, una sorta di desertificazione identitaria, una cancellazione di senso e di riconoscibilità…

S.S. Vorrei sottolineare, però, che la simulazione del protagonista è rivolta soprattutto verso la sua famiglia, verso il suo ambiente d’origine. Non gli importa essere riconosciuto come manager dai personaggi torbidi che incontra nella sua nuova vita, ma vuole assolutamente che moglie e figli continuino a credere che lui è quello di sempre, e che nel loro ménage nulla è cambiato. Da questo punto di vista, credo che il film colga un aspetto importante nella psicologia di tanti manager: quello secondo cui il valore e l’importanza del proprio ruolo all’interno dell’organizzazione si misura nell’esteriorizzazione simbolica, cioè nell’apprezzamento della famiglia nei confronti di certi comportamenti o status symbol. È la tua famiglia che ti “dignifica” socialmente. Per questo il protagonista del film finge di essere un funzionario dell’ONU con ufficio a Ginevra: sceglie un’organizzazione non governativa, invece che un’azienda qualunque, perché nella mentalità dei francesi il fatto di lavorare all’ONU è molto più prestigioso e socialmente nobilitante di quanto non sia lavorare per la Renault o per la Nestlé.

G.C. Invece, nella sua vita “clandestina”, il personaggio è un uomo che sembra quasi invisibile, che si mimetizza perfettamente con lo sfondo. È una sorta di camaleonte che fa di tutto per passare sempre inosservato. Come se cercasse in questa totale invisibilità una compensazione simbolica all’eccesso di esposizione e di visibilità cui lo obbligava, prima, il suo ruolo di dirigente nell’organizzazione per cui lavorava…

S.S. … o una reazione mimetica – da Zelig, quasi – alla spersonalizzazione di cui si sentiva vittima. Ho trovato molto bella, nel film, la sequenza in cui il protagonista si introduce clandestinamente in un lussuoso palazzo di vetro, sede di una grande azienda, e passeggia di fronte ai vari uffici, spiando il lavoro di manager, dirigenti e impiegati. È una sequenza che rende visibili i rischi della spersonalizzazione o dell’alienazione, con una potenza che mi ha ricordato Playtime di Jacques Tati.

G.C. Anche il finale del film è volutamente ambiguo. Come termina davvero la storia del protagonista? Con la scena in cui scivola nel buio e scompare, o con l’epilogo in cui sembra accingersi, attraverso un colloquio di selezione, a ricollocarsi daccapo sul mercato del lavoro?

S.S. Secondo me ogni spettatore può optare per una soluzione o per l’altra a seconda della sua posizione ideologica di partenza. C’è chi può legittimamente ritenere che il film termini con un happy end e che Vincent alla fine si salvi perché ritrova finalmente un lavoro, e chi invece può vedere nei suoi occhi tristi e perplessi una sorta di resa alla necessità, preconizzando per il personaggio un futuro da consulente senza entusiasmo, in una prospettiva tutto sommato soffocante e perdente…

G.C. Ma nella realtà del management contemporaneo come finirebbe una storia così? Ammesso che sia credibile che una vicenda simile possa verificarsi…

S.S. Credibile lo è sicuramente. Il film, come è noto, trae spunto da una storia vera, successa in Francia, e conclusa con lo sterminio della famiglia da parte del protagonista. Ma era un caso, come dire, patologico. Di fatto, quel che mi pare poco plausibile è che un manager reagisca alla perdita del lavoro (ammesso che non sia stata una perdita volontaria) con tale fatalistica rassegnazione. In genere i quarantenni che si trovano in una situazione simile si danno da fare con tutte le loro forze per rientrare al più presto, le provano tutte pur di non sentirsi esclusi, o “finiti”. E in genere riescono anche a rientrare, almeno in Italia, anche se spesso non con lo stesso ruolo che avevano in precedenza. Il film di Cantet, da questo punto di vista, non si può certo definire “realistico”. Ma non è detto che nel cinema dobbiamo cercare sempre e soltanto uno specchio della realtà…

G.C. Infatti. Credo che A tempo pieno vada letto piuttosto come un apologo, o come una parabola. E che possa insegnare a tutti qualcosa, se non altro sulla vischiosità con cui tendiamo troppo spesso a individuare nei simboli più appariscenti della nostra condizione professionale anche gli elementi distintivi della nostra identità.