E&M

2001/6

Per partecipare alla maratona di New York il buon Ciro ha trasformato la sua vita diplomatica nel desolato Paraguay in un rosario di ulteriori sofferenze. Da mesi elabora e rispetta precise tabelle di allenamento, senza indulgere neppure a un dissetante se è arricchito di sali minerali. In ogni parte del mondo migliaia e migliaia di persone si allenano con la medesima caparbietà. E non certo per vincere. Chi partecipa a una gara collettiva così affascinante desidera smettere, per sempre, gli umili panni della semplice comparsa per rivestire la solenne divisa del protagonista. Se Ciro arriverà in tempo massimo gli sarà consegnato un diploma di partecipazione che registrerà la sua posizione in classifica e il tempo impiegato. Ma quelle cifre saranno soltanto un dettaglio irrisorio della gigantografia del gruppo ripreso al culmine della tensione agonistica. Ogni mattina Ciro saprà riconoscersi in uno di loro perché la corsa, per lui, continuerà ogni giorno.

Chi dice: “Sono arrivato dove volevo” è un piccolo uomo perché non è riuscito ad assaporare il gusto dell’utopia, il richiamo di quella terra affascinante proprio perché inesistente. Se si accorge che qualcuno la sta avvistando, gelosissima, l’utopia sposta la sua soglia verso il regno dell’inaccessibile. Si dice che il comunismo sia morto proprio perché credette che l’utopia fosse raggiungibile. Talvolta, commettendo lo stesso errore, catechizziamo i giovani con una frase di Seneca: “Non c’è porto per chi non sa dove va”. Ma i loro occhi ci guardano perplessi. Non vogliono cercare un approdo perché amano vivere. Preferiscono l’immagine del deltaplano perché suggerisce loro la ricerca di una fortunata corrente ascensionale.

Al porto non credono neppure gli adulti: sono troppi quelli che non vogliono fare testamento.

Amano sempre e solo sorprendere. Del resto, le grandi dimensioni strategiche, dall’imprenditorialità all’innovazione, al rischio, si rifiutano di disegnare un punto definitivo di arrivo. Chi possiede una barca e la osserva ancorata alla riva immagina solo di riprendere il largo. Non è il porto che stimola: ma il suo rifiuto. Ciro, il nostro fanatico podista dilettante, è un accanito romanista. Segretario dell’Ambasciata d’Italia in Paraguay, ha festeggiato uno scudetto atteso oltre vent’anni facendo sventolare, per un giorno, sul pennone della nostra ambasciata il tricolore con la bandiera della Roma, sotto lo sguardo persino sorridente dell’ambasciatore, uno juventino raffinato (merce sempre più rara). Ma alla cena dei festeggiamenti, in una pizzeria di Asunción, Ciro domandava, proprio a me milanista: “Noi romanisti, l’anno prossimo che cosa vinceremo?”. Nel limoncello del brindisi cercava di leggere i successi del futuro.

Ciro si è appena sposato per la seconda volta. È proprio vero che il matrimonio è come una torre: chi è fuori desidera entrare, chi è dentro desidera uscire. Raggiunto un risultato, il desiderio della ripartenza si fa più intenso. Dante ci racconta che Ulisse, dopo aver raggiunta la sua Itaca, il cui desiderio ha riempito l’intera Odissea, riprenderà la via del mare verso il folle volo. Il vero sogno consiste nel moltiplicare i traguardi all’infinito. Michael Ende conclude così una celebre favola: “Dietro l’orizzonte sorgono sempre nuovi orizzonti. Abbandoniamo il mondo del sogno per ritrovarci in un altro. E mentre ne attraversiamo la frontiera, già si va preparando la successiva. La mia strada mi si dipana davanti. Io non invidio nessuno che abbia raggiunto il proprio obiettivo. Viaggio volentieri”.